venerdì, maggio 25, 2007

 

LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA



L’estate è esplosa come la gioia del vincitore. Il ronzio di condizionatori accesi ruba il volto sereno alle terrazze sui tetti di Bologna e le voci sguaiate dei televisori annunciano il nulla con grande entusiasmo.

Il peso delle ultime giornate lo porto addosso. Mi incurva le spalle. E’ solo un attimo, penso. Quando il lavoro avvelena la vita e fuori rosseggiano più di trenta gradi, è di una doccia che ho bisogno. Uno scroscio d’acqua che annaffi il buonumore.

Cammino scalza sul marmo fresco di questa casa antica. Le spesse mura mi riparano dalla calura cittadina e i pesanti tendaggi da occhi indiscreti mentre lascio tracce di abiti sul pavimento e una musica ipnotica rimbalza note dal sapore epico.

Shampoo alle ortiche, balsamo delle fate, pettine a denti larghi e schiuma naturale. Entro nella vasca mosaico verde, tiro la tenda di tela grezza e chiudo gli occhi in attesa del getto. Le prime gocce, come spilli d’acciaio, si conficcano fredde sul volto e mi svegliano dal torpore di un pomeriggio assolato. L’abbraccio dell’acqua calda si lascia desiderare e io l’aspetto soffrendo fiduciosa mentre spalmo il profumo di una crema da bagno. L’acqua è sempre più fredda.

Allontano la schiena. Sulla rubinetteria cromata uno strato di condensa annuncia il gelo. “Porca put….!” impreco, ed esco dalla vasca gocciolante. La pelle increspata come oca starnazzante e l’aria scocciata di bambina con un giocattolo rotto.

Oltre la finestrella della caldaia non vedo fiamme accese e una pozza vischiosa prende forma ai miei piedi. Provo ad appiccare il fuoco ma nulla da fare. Come un gelato che scioglie sotto il sole battente mi aggiro per la casa alla ricerca di una scatola di fiammiferi. Li trovo e torno tremante. Ci provo e ci riprovo. La luce non si accende.

“Nella rinuncia c’è anche saggezza” diceva il mio prof di matematica. E io che non son saggia provo fino allo sfinimento ma nessun risultato.

Lo sconforto trova strada facile quando manca l’acqua calda, ma peggio sarebbe se mancasse anche la fredda, penso. Vado in cucina lasciando una scia di impronte bagnate. Là ci sono pentole e fiamme pronte a incendiare.

Mi rivedo bambina nella vecchia casa dei nonni, a bagno nella mastella di legno che sapeva di mosto, con quella mano di donna che mi insaponava cantando “parlami d’amore Mariù”.

Sorrido e oggi al bagno non rinuncio. Fosse solo per non dare adito alle parole di quel vecchio insegnante che sapeva giocare solo coi numeri.

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lunedì, maggio 14, 2007

 

TRISTEZZA, PER FAVORE VA’ VIA


Ho combattuto coi draghi tutta la notte per guadagnare il risveglio. “E’ l’alba di un nuovo giorno”, diceva sempre mia madre quando, bambina, mi nascondevo sotto le coperte per non affrontare l’aria frizzante della mattina invernale.

In strada solo poche auto e qualche bicicletta che scivola sul ciottolato antico.

“Inseguendo una libellula in un prato, un giorno che avevo rotto col passato….”, canta Battisti alla radio, mentre il mio caffè brontola e reclama attenzioni.

Da ieri mi ronza attorno la tristezza come zanzara che vuole il mio sangue. L’ho portata al parco a vedere i bambini sporchi di gelato. Si è distratta per la barzelletta spinta di due vecchi seduti all’ombra, poi è tornata al mio fianco, distesa al sole, come bagnante senza stagione.

Abbiamo camminato sull’erba a lenti passi, senza parlare. E’ salita in sella alla mia bicicletta e ho portato il suo peso morto a veder vetrine spente per le strade del centro.

Ha bevuto il mio tè, mangiato il mio dolce alle mandorle.

Al tramonto ci siamo fermate in piazza dove un uomo dagli occhi azzurri suonava la chitarra. La guardavo rispecchiarsi vanesia in quelle note che parlavano di lei. Le sorridevo falsa per mascherare le mie vere intenzioni. E in un momento propizio sono fuggita ansimando verso casa. Ho tagliato per vicoli sconosciuti. Cancellato le mie tracce gettando sabbia sulle impronte. Ma davanti al portone l’ho ritrovata, seduta sul gradino, che faceva boccacce ai passanti.

A sera stava ancora con me. Il volto livido di stanchezza e un cinico ghigno che pareva dirmi: “Non ribellarti, tanto resto qui!”

C’è chi dice che la tristezza sia l’incontro fra il desiderio e i suoi limiti. Il dizionario in rete la dà come sentimento proprio degli artisti sempre in corsa per superare se stessi. Eugenio Montale diceva che l’uomo coltiva l’infelicità per avere il gusto di combatterla a piccole dosi.

Per me è solo un brutto incontro, parole che non riesco a dimenticare. E’ l’odore di ruggine di un binario che traccia strade sbagliate. Il sapore di un pasto lasciato a metà. Il castello lontano dove vorrei vivere col principe.

Torno a dormire. Chissà, forse al secondo risveglio sarà davvero l'alba di un nuovo giorno.

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giovedì, maggio 03, 2007

 

PITTORE TI VOGLIO PARLARE




La pittura è il linguaggio di chi preferisce segni e colori alla sterilità di certi discorsi. Perfetta per i sordomuti e sconosciuta ai pettegoli, la pittura è musica per gli occhi. A volte un canto, a tratti è rock. Se improvvisa è jazz. Nelle sue sfumature più lievi è una sonata classica.

Non sono una pittrice, ma quando spendo fino all’ultima parola e in fondo alle tasche non rimangono che briciole di sillabe, è del colore che ho bisogno, della sua naturale melodia e delle forme che escano dall’ombra.

“Sua figlia non imparerà mai a disegnare!” tuonava la mia insegnante delle prime classi. “Avete mai visto un pittore mancino?” Infieriva. Io che non avevo mai visto nemmeno un pittore, guardavo la mia mano sinistra e seguivo le linee di una vita che tutto poteva meno quella cosa lì.

E’ una mattina umida a Bologna. La città si riveste dopo l’illusione di un’estate e al piano di sopra qualcuno ha già messo a scaldare il caffè.

Sono in una stanza vuota, la mia futura camera da letto. Un pavimento in cotto antico guarda un soffitto spoglio a quattro lunghi passi direzione cielo. A quell’altezza starebbe bene una decorazione liberty, semplice, floreale, penso guardandolo. Ne ho già dipinti di soffitti e un fregio di quel tipo non è poi così difficile da realizzare. Ma la mia fantasia non conosce censura e nel chiaro scuro di un azzurro macchiato di nuvole, vedo due putti alati che portano a spasso ghirlande di foglie e fiori intrecciati.

“No, non puoi farlo!” ammonisce una vocina da dentro.

Perché no? Chiedo ingenuamente.

“Perché non hai mai dipinto un corpo.” Ribatte la vocina.

La pittura nasce dall’osservazione. Sarò meticolosa, assicuro io.

“Non basta osservare, serve più esperienza.” Insiste boriosa.

Guardo il soffitto. L’immagine dei putti torna a dominare sulle foglioline d’alloro e le forme geometriche che ridefiniscono lo spazio. Li vedo. Gli occhi socchiusi, i corpi floridi e sospesi.

Non posso lasciarli nel nulla.

Monto un vecchio ponteggio. Il metallo lucido alterna gocce seccate di elementi cromatici.

Sulla tavola di legno ci sono polveri dei tre colori primari e un sacchetto di carboncini. Un pezzetto di carta vetrata di grana fine, barattoli di pigmenti naturali, pennelli e una ciotola d’acqua pulita.

Alzo il volume della radio e mi arrampico fino all’ultimo ripiano.

L’odore dell’impasto colorato è un pomeriggio di giochi e pasticci in un dopo scuola di paese.

Guardo il mio braccio. La carne non è rosa, mi ripeto. C’è il giallo, il blu delle vene, l’ombra delle pieghe della pelle. Se non avessi imparato a osservare non mi sarei mai accorta di quanto bianco c’è sulle foglie bagnate. Non avrei mai visto l’ombra nelle forme. Non avrei mai notato che il mare di notte può essere giallo.

Con tutti i barattoli aperti sono come un cuoco che amalgama ingredienti e realizza creme invitanti e velenose che non possono essere assaggiate. La prima tinta è pronta. Troppo scura. Troppo rosa. Troppo fredda. Aggiungo una punta di giallo. Il colore si scalda ma è ancora troppo carico. Stempero col bianco. Aggiungo altra ombra. Ora è grigio. Una punta di Magenta e la tinta torna a rivivere. Ancora troppo scura. Altro bianco. Stempero con l’acqua. Troppo giallo. Raffreddo col blu ciano. Troppo spento. Ravvivo ancora col Magenta. Scaldo col giallo e spengo con l’ombra. Ultima puntina di bianco: eccolo!

Ora mi serve solo concentrazione e una buona dose di fortuna che mi guidi la mano. E se tutto andrà bene, presto mi sveglierò guardando due putti che danzano, del colore del mio braccio abbronzato.

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