martedì, ottobre 23, 2007

 

Io scriverò, se vuoi perché cerco un mondo diverso


Il mattino è la giusta chiave per aprire la giornata, mi sono ripetuta appena sveglia spruzzando acqua fredda sul viso. E svelare la serratura così di buonora può scansare l’ignavia del giorno qualunque.

L’autunno scalda la sua voce frizzantina in assonnati gorgheggi che riecheggiano sotto i portici e io aspetto l’autobus con le mani in tasca e la tranquillità di chi sa che prima o poi lo vedrà arrivare. L’odore dei banchi di scuola si mescola all’aroma del caffè d’importazione. La brezza che mi solleva il bavero del trench mi fa sentire come il quotidiano della città sfogliato di fretta davanti a un latte macchiato, mentre il chiacchiericcio di due donne senza età sovrasta il rombo di motori a scoppio che sporcano le strade un tempo battute dalle carrozze di signori in abiti eleganti.

Amo questa città perché ci vivono gli artisti, pensavo quando, studentessa in jeans, correvo a lezione con una vecchia legnano da uomo che sapeva di cantina. Oggi la amo perché il rosso della sua pietra suggerisce storie da raccontare.

E’ agli scritti che penso quando aspetto qualcosa o qualcuno.

I pensieri varcano nuove frontiere e l’immaginazione imbastisce fatti mai accaduti con l’abilità del menzognero impegnato a nascondere le sue vere intenzioni.

I personaggi possono nascere ovunque, mi ripeto. Sotto i cappelli dei passanti, lungo i marciapiedi imbrattati di escrementi di cane e cicche spente, in due occhi chiari che si specchiano nella vetrina di un negozio di strumenti musicali.

Sfilo una penna dalla borsa e abbozzo un paio di frasi suggerite dal mio umore al risveglio.

Non mi domando mai perché scrivo. Lo faccio e basta.

L’autobus non si vede ancora mentre mi raggiunge la telefonata di Giuseppe Merico, scrittore salentino conosciuto in rete una mattina d’agosto, quando il mio universo prometteva parole criptate che ancora non riuscivo a decifrare. La sua è una voce che sa di tabacco e sughero da ornamenti, penso.

“C’è un pipistrello” dice. “Lo vedo, l’hanno imprigionato nella loggia di Palazzo Bentivoglio.”

Queste sparate le conosco. Devo ignorare il suo trip o finirò per vedere le ali trasparenti volteggiare su di me.

“Spaghetti alle vongole e paganelli fritti, che te ne pare del pranzo di oggi?” propongo io.

“Il pipistrello non può uscire, rimango qui con lui. E poi cosa sono sti paganelli?” continua.

Potrei raggiungerlo al Palazzo e vedere che il pipistrello non c’è, ma non voglio seguire le fantasie mattutine di un cervello del sud che sa scrivere meglio di me.

Insisto per il pranzo. Da casa sua potremmo sentire lo scorrere del fiume e vedere il giardino di alberi da frutto che inverdisce il castello con vetrate e finestrelle a bifora.

“Passiamo dal mercato del pesce!” continuo.

“Prima devo sistemare la faccenda del pipistrello” ribadisce lui.

Quando Giuseppe si mette in testa qualcosa, le intenzioni si aggrappano ai suoi capelli rasta e lì si attorcigliano ineluttabilmente finché una vecchia donna africana non prova a pettinarlo con la fermezza di una madre che lo vorrebbe in abito da sera.

“Lascia stare il pipistrello!” suggerisco. “Ti preparo un bel pranzetto.”

“La domenica non riesco a scrivere” mi rivela. “C’è una donna che spazza il cortile e non riesco a scrivere” spiega.

“Ma oggi è lunedì” preciso io.

“Già!” replica lui soddisfatto. “Noi siamo tipi infrasettimanali.”

E già non sento più la sua cadenza.

Lo vedo camminare fra la folla di un inizio settimana con le sue parole scritte su un tovagliolino bianco. Lui non si domanda mai perché scrive. Lo fa e basta.

Il sole si fa largo fra i palazzi che fiancheggiano la via. In fondo alla strada vedo sbucare l’autobus.

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