mercoledì, novembre 29, 2006

 

UN DISCRETO NATALE


Domenica c’era il sole a Bologna. Se non ci sentissimo in colpa per aver insozzato il pianeta, potremmo godere della mitezza di un autunno così generoso, senza sospettare, dall’azzurro del cielo, l’imminente atterraggio di una funesta vendetta ai nostri danni. “E’ l’effetto serra!” continuano a ripetere gli esperti. “I ghiacci si sciolgono. Le temperature aumentano. Fra quarant’anni non ci sarà più pesce.” Io non credo che l’uomo possa arrestare la discesa verso gli inferi, ma almeno evitare di accelerarla, quello sì.

Cammino sotto i portici con una scatola di libri freschi di stampa che mi ha consegnato di buonora il mio editore quando intercetto, nell’aria inquinata e un po’ nebbiosa di una mattina in città, la conversazione di due donne ferme davanti alla libreria. “Io non regalo più libri, tanto nessuno li legge!” tuona la più magra delle due. “Io li regalo lo stesso. Se la gente non legge non è mica colpa mia!” risponde l’altra.

Sorrido mantenendo il passo e penso ai regali, al Natale che imperversa nelle vetrine del centro, ai festoni dorati e alla neve finta che comincia a vedersi già dal mese di ottobre. Sbuffo.

Di regali ne ho avuti tanti e ne ho fatti di più. Chi mi conosce ama stupirmi. Nel Natale dell’89 un ragazzo provò a conquistarmi con un pezzetto del muro di Berlino. Se non fosse stato un avvocato, forse ci sarebbe riuscito. Detesto le cose inutili. Gli oggetti non pensati per me. Il regalo dozzinale mi mette tristezza. Amo solo ricevere libri. Cominciare l’anno nuovo con qualche romanzo che odora di stampa sul comodino è di buon auspicio. Arresto il passo. Penso ai libri che mi hanno donato e a quelli che non sono più nella mia biblioteca: “Endless love” di Scott Spencer e “La ragazza di Trieste” di Pasquale Festa Campanile. Che fine avranno fatto? Sono quei libri che passano nella vita e se ne vanno altrove a casa di un qualcuno a cui li hai prestati e ci ha già foderato la pattumiera ignorando quelle frasi sottolineate dall’emozione dei tuoi dodici anni.

Entro in libreria e chiedo notizie sui due romanzi anni ottanta. “Sono fuori catalogo!” mi risponde un tizio assai divertito. “Significa che non riuscirò mai più a trovarli?” domando ingenuamente. “No!” risponde compiaciuto. “Abbiamo l’ultimo di Dan Browne!” propone fiero. All’improvviso mi sento quasi invecchiata, fuori tempo in un ballo di gruppo, e vedo gli scaffali traboccare di colori e titoli bizzarri. “Odio il jazz e tutta la musica strana” sta scritto sulla copertina di un piccolo volumetto colorato. Passo lo sguardo sull’immensa distesa di romanzi americani e non so che farmene di tanta varietà. Mi gira quasi la testa. E poi calendari, agendine, gadget che puzzano di plastica verniciata, matite intarsiate, morbidoni antistress, portachiavi, portacellulare, portatutto. Esco come il boccone indigesto espulso da un orco ingordo. Sulla strada di casa rivedo le due signore. La più magra continua a parlare di regali, l’altra accompagna una vecchia bicicletta verde carica di pacchi infiocchettati. Io mi fermo davanti al portone di legno. Dal palazzo di fronte ciondolano lucine a intermittenza. Mia zia ha già la casa piena di panettoni. “Amo il Natale a Venezia perché è più discreto che altrove”, mi ha confidato un giorno un amico, e penso che è di quella discrezione che in fondo si ha più bisogno.

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martedì, novembre 21, 2006

 

LOVE AND WAR


Quando l’arroganza del più forte zittisce e oscura l’uomo mite, la violenza trova terreno fertile in ogni luogo, anche senza curarsi della luna.

E’ sera e l’assenza di luce viene rimpiazzata dai fari delle auto incolonnate sulla strada del ritorno. Clacson, motori roboanti di vecchi autobus sfasciati, e un’insofferenza da caos che fuoriesce dai tubi di scappamento annunciano quella che chiamo “l’ora del maccherone”, il rientro in colonna dopo una giornata di lavoro. Il traffico dentro le mura bolognesi è tutt’altro che limitato. Auto, scooter e bus pubblici fanno a gara, mentre un insidioso malessere rabbuia i volti dei passanti già impegnati a schivare le cacche sotto i portici.

Sto annaffiando i ciclamini sul davanzale quando sento il primo grido. “Te lo spacco in faccia!” minaccia un tizio a voce tuonante. Alzo gli occhi dai fiori lilla e vedo un paio di uomini che si azzuffano. Gli animi sono accesi come fuochi di solventi. Uno maneggia il casco e l’altro è ancora in sella al suo motorino. I due si studiano come galli da combattimento. Il più basso spinge con un tocco stizzoso la spalla dell’altro. “Non mi toccare o te lo spacco in testa!” ribadisce quello con la voce strozzata di rabbia. Un terzo uomo tenta di spegnere la polemica. Discutono, si insultano. L’uomo riceve una spinta e rinuncia al ruolo di mediatore. I due continuano a rimbeccarsi a suon di insulti e un semicerchio di curiosi delinea una prima fila di spettatori non paganti che assistono a uno spettacolo di pessima qualità che potrebbe titolarsi “Un parcheggio per due”.

Vola il primo ceffone. “Cazzo, si picchiano!” annuncia un ragazzino con lo zaino in spalla. L’anello di testimoni si infittisce. Qualcuno prova a fermarli. I due si scaricano addosso pugni e calci senza risparmiare insolenze e bestemmie. “Chiamate la polizia!” ordina una donna in paletot. L’esplosione d’irruenza colpisce la mia mano che comincia a tremare mentre fuoriesce acqua dal sottovaso che schizza sui miei piedi e penso che fu negli anni Settanta che vidi per la prima volta uomini in divisa ammanettare qualcuno. Io, bambina silenziosa e vigile, che assaggiava la vita dai piatti degli adulti, mi trovavo seduta davanti a casa in un pomeriggio afoso quando due giovani hippy, spogliati e all’ombra di un pino, iniziarono a fare l’amore sull’erba del giardino pubblico. Lui, capelli lunghi e collane, e lei, rossa e piena di lentiggini, crearono un tutt’uno dei loro corpi magri davanti allo sdegno di un’intera congregazione di bacchettoni e allo stupore di una donna in erba che misurava la sua meraviglia fra le pieghe di quell’inusuale intreccio. Tale estasi non durò che qualche minuto, finché un auto verde bottiglia se li portò via a forza trascinando i loro piedi scalzi lontano da quell’eden e dai miei 5 anni.

Raccolgo da terra l’acqua. Richiudo la finestra sui due litiganti e sul loro furore metropolitano, e penso che si corrono più rischi a fare l’amore che a fare la guerra.


mercoledì, novembre 15, 2006

 

Colazione senza Tiffany


C’è chi si interroga sul senso dell’arte, sulla sua percezione nell’uomo, sui contenuti dell’opera e c’è chi vive senza mai porsi domande. Io mi chiedo solo perché gli artisti perdano i pezzi per strada.

E’ mattina in quel di Bologna mentre preparo il caffè di cereali e aspetto Dario Gambarin, pittore veneto con il pallino delle facce. Dario l’ho conosciuto sul set dell’ultimo film di Pupi Avati, fra gli abiti anni Quaranta e le macchine d’epoca. Io, presa dal mio nuovo incarico, come un garzone di bottega mi prodigavo per coordinare l’attività dei “figuranti”, come li chiamava Avati, mentre loro, “le comparse”, come prime donne hollywoodiane, scorazzavano per la città in costume e trucco. Dario si trovava esattamente dove non avrebbe voluto essere in quel momento ed è per questo che mi ricordo di lui, perché si lamentava.

Il caffè è già nelle tazze quando entra in casa come un tornado, energico, disarmante. Mi racconta di una star che conosce e vive a San Francisco. Una che si alza presto la mattina. Una che beve succo d’arancia per colazione e corre col suo personal trainer per quaranta minuti nel parco della sua villa. Poi doccia, massaggio, telefonata al manager. Pomeriggio per il riposo e così via. Mi consiglia di aspirare a una vita del genere. Gli rispondo che non amo il succo d’arancia e parliamo dei suoi quadri. Dario è uno di quegli uomini che se non trovava l’arte come valvola di sfogo sarebbe esploso a vent’anni. Esuberanza e poliedricità convogliano nella sua vena creativa e si esprime tracciando su tele linee colorate che inseguono volti solo abbozzati. Le sue facce sono infinite e tutte da cercare. Gli dico che dipinge per stimolare la creatività di chi osserva i suoi quadri. Lui continua a pensare all’amica americana. Poi mi parla di Hugh Grant. Dice di non capire perché si sia fatto beccare con quella prostituta. “E’ roba vecchia, non ci pensare” lo tranquillizzo. Dopo il caffè si infila giacca e basco cremisi. Continua a parlare di Hugh Grant mentre fruga nelle tasche. “Ho dimenticato qualcosa!” ripete. “Non hai dimenticato nulla” cerco di convincerlo. “Sei tutto intero, fidati”. Non è convinto. Torna in cucina. Si rigira su se stesso. Nelle tasche trova le chiavi, poi la penna, in ultimo il cellulare. “Vedi, hai tutto!” gli ripeto. Lui si tocca il cappello e torna su Hugh Grant. Penso che qualcuno dovrebbe aiutarlo a superare il trauma. “Non dimentico niente?” mi ripete. “No, continui ad avere tutto!” mi spazientisco. Lancia le ultime battute sulla storia di Grant e si avvia verso il suo atelier. Dalla finestra lo osservo camminare a passo sciolto sotto il portico. Sembra un bambino che non ricorda dove ha appoggiato la bicicletta anche se è uscito a piedi, penso. Poi richiudo la tenda, mi giro, e vedo che sul mio divano riposano, uno sull’altro, i suoi guanti di pelle nera.


martedì, novembre 07, 2006

 

C’E’ TUTTO UN MONDO INTORNO


Stamattina rientro a Bologna dal lungo week end romagnolo. Il treno, pulito, modello “Minuetto”, mi accoglie nel suo vagone futuristico assieme a prese elettriche per il portatile, larghi corridoi per disabili, comode poltroncine ergonomiche e un display che segnala la temperatura interna ed esterna. Comincio la giornata chiedendomi se mi trovo in Italia.

Di fronte a me siede una donna con un cagnolino che dorme in una borsa di plastica rossa. E’ irlandese. Di fianco, due studentesse parlano di un ragazzo cubano come vecchi bavosi che commentano il culo di una ballerina dell’est. Dal finestrino, la campagna romagnola mi ricorda distese di campi francesi e più avanti, le pale che incamerano l’energia del vento mi fanno pensare alla Danimarca.

Alla stazione centrale un gruppo di uomini in cravatta sta comunicando in tedesco. Dal tabaccaio c’è un senegalese che compra le sigarette e nell’atrio mi imbatto in una coppia di cinesi che si confrontano pacatamente. Nel piazzale, l’odore del fritto delle paninoteche mi riporta a Londra, e quello che esce dai tubi di scappamento delle auto sa di Città del Messico.

Carica di borse e valigie come un’intera famiglia in partenza per le ferie d’agosto, attraverso la strada e mentre faccio la gincana fra le sagome intirizzite dal freddo mi sento a New York.

Sull’autobus una signora dal volto ispanico mi cede il suo posto e va a sedersi su di un piano stretto e scomodo, sopra la ruota anteriore. Ha gli occhi truccati d’azzurro e la bocca rosa corallo. Le sue dita sono deformate dalle artriti e porta lunghe unghie laccate. Le sorrido e penso al Brasile.

Sotto casa incontro un avvocato portoghese che sta con una ragazza indiana. Al palo c'è legata la bicicletta olandese di una vicina svizzera e dalla panetteria esce una marocchina vestita di chiaro. Mi lascio il mondo alle spalle e oltre il portone mi accoglie subito l’aroma del caffè. Sento la vedova del piano terra lamentarsi del governo e delle tasse e vedo l'incaricato di agenzia mostrare ai suoi clienti un vecchio appartamento umido e buio ricavato da un sottoscala, mentre l'occhio mi cade sullo scorrimano di legno antico dove qualcuno ha inciso "W la Juve". Inserisco la chiave nella toppa e mi ripeto "Bentornata al Belpaese!”


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