giovedì, aprile 26, 2007

 

Quella casa non è un albergo




E’ un caldo pomeriggio nel paese del vento. Bagnanti di bassa stagione abbracciano il sole sulla spiaggia. L’azzurro è generoso come il seno di una balia, e sulla sabbia un viavai di orme cancella le onde disegnate dall’ultima tramontana.

Col sottofondo intonato dal mare, cammino in pineta, sopra un prato di aghi e legnetti spezzati, e sotto una pelle accaldata che profuma di abbronzante e di costume nuovo. Un tempo c’erano le more che coloravano le siepi, rifugi selvatici e custodi del sogno di cavalieri pronti a salvare sfortunate principesse dalle insidie di streghe cattive.

Mi faccio strada fra tronchi mozzati e passeggini che trasportano bimbi in dormiveglia. In lontananza un pianoforte spennella note barocche sulle cortecce ruvide dei pini. E’ Bach. Mi avvicino. Un passo ancora e sono davanti a quella casa. Le finestre sono spalancate, una veranda retrò lascia intravedere un interno di oggetti e arredi antichi. Alle pareti quadri di famiglia e foto storiche. Vecchi mobili di legno scuro, pizzi nelle credenze, stufe di ceramica e un rosso di gerani che contrasta il bianco dei muri. E’ La Villa, rifugio per turisti e giardino segreto dei miei giorni agitati.

Casa al mare di una storica famiglia ferrarese, che negli anni cinquanta divenne una pensione per viandanti, La Villa è per me luogo di magie e porto di mare dove attraccare per riprendere fiato.

Alla Villa vive Giorgio, sessantenne o forse più, figlio di una bellissima donna sulla novantina, famosa per la traversata dell’Adriatico sugli sci nautici, e di un affascinante attore di fotoromanzi che distillava essenze di fiori selvatici e guidava un’auto sportiva di antica targa.

Giorgio scrive, dipinge la sua compagna e và per cielo e per mare. Ha bei figli di una moglie che non c’è più ed è depositario di tutti i ricordi del luogo. Da ragazzina oltrepassavo quel cancello per sbirciare una vita piena di avventura. Alla Villa accadeva sempre qualcosa. Alla Villa c’era sempre qualcuno. Di sera, seduti nel salotto di pietra, si potevano ascoltare storie fantastiche di quegli anni che non ci sono appartenuti. Lì ho conosciuto draghi e imperatrici, sovrani e cortigiane.

Qualche volta, feste di buona musica e pesanti mescolanze alcoliche ci facevano sentire come vecchi lupi di mare di ritorno da un lungo viaggio. A fine serata guardavo con invidia gli ospiti che salivano le scale per raggiungere le camere da letto. Dormire alla Villa mi sarebbe piaciuto davvero. Sognavo di passarci la notte con un principe, ma mi dissero presto che l’ultimo se n’era andato con Biancaneve.

Entro nel porticato. Una fragranza di glicine e di panni stesi sostituisce l’odore di resina e di sottobosco. Seguo la scia di fumo di una sigaretta accesa. C’è qualcuno. Se sono fortunata avrà qualcosa da raccontare.

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mercoledì, aprile 18, 2007

 

PAPAVERI SUONI E PAPERE


“Parlare di musica è come ballare di architettura” diceva Frank Zappa. Ma per parlare di musicisti bastano parole danzanti, penso io.

E’ serata di jazz al birrificio bolognese. Organizzare concerti mi porta a vivere i locali come luoghi di applausi e pubblico pagante. Ogni martedì è il “dietro le quinte” che mi spetta, l’accensione di quel motorino d’avviamento che imbastisce il tessuto di ogni esibizione dal vivo.

Quattro strumenti prendono posto sul palco. Dapprima si sistema la batteria, piatti d’ottone che rispondono alle frustate di due bacchette magiche. Poi il pianoforte, tasti in abito scuro sottobraccio a compagne vestite di bianco. Sullo sfondo si alza in piedi un contrabbasso, corde di un violino cresciuto, mentre un trombone buca il silenzio intonando un’aria d’oltreoceano.

Eccoli! Un quartetto di purosangue del jazz che impastano suoni swinganti al ritmo di bebop.

Stasera non ho appuntamenti, non ci sono giornalisti con cui parlare e mentre penso di diventare pubblico e viaggiare con le note, si fa avanti, puntuale come l’alba di un giorno che non vorresti, il primo inconveniente.

“Pronto Lucia? Sono il fonico.”

“I ragazzi sono già qui.” Lo rassicuro.

“Io non ci sarò!” Replica lui.

Comunicare a quattro musicisti in tensione che il fonico non ci sarà è come togliere la rete di protezione a un’acrobata prima del doppio salto mortale.

Ostento sicurezza e mi avvicino al mixer con aria esperta.

“Sei tu il fonico?” domanda il pianista.

“Sì”, mento io.

Se mi trovassi davanti alla pulsantiera di un Boing 747 sarei più rilassata e con un piccolo sforzo potrei trovare il pilota automatico e anche volare.

La serata ha inizio.

“Schiarisci il suono del trombone!” suggerisce il bassista.

Guardo le lucine lampeggianti e il senso di inettitudine mi ridisegna il volto. Davanti a me una serie infinita di pulsanti, leve e pomelli disposti con un criterio che ignoro completamente. Muovo una prima leva e alzo il volume generale delle casse. Un tuono di suoni invade il pubblico che chiacchiera sereno ai tavolini. Il silenzio mi rimprovera per primo, poi segue l’occhiataccia del batterista e io vedo solo le sue bacchette alzate.

“Schiarisci il trombone!” insiste il bassista.

Seguo con lo sguardo il cavo in ingresso che unisce il microfono al mixer e circoscrivo la mia azione ai pulsanti che lo riguardano. Sono otto. Quale sarà il colore chiaro?

Gli occhi del bassista mi supplicano.

Faccio ruotare sicura il primo. Nessun effetto.

Il bassista insiste.

Il secondo pulsante è rosso. D’istinto non lo toccherei ma devo uscire dall’impasse. Lo sfioro appena e di risposta parte un fischio d’allarme che trafigge anche i pensieri.

E’ il panico.

Sono come un cieco che guida nel traffico dell’ora di punta.

Il terzo pulsante è grigio, rassicurante. Ci riprovo e rimango in apnea per cogliere anche la minima variazione. Lo ruoto in senso orario e mentre continuo a non respirare il suono del trombone comincia a uscire dal tunnel che lo aveva intubato. Eccolo il colore chiaro, penso. Il bassista sorride. Ascolto quella melodia che ha riacquistato smalto e quei toni alti che mancavano.

La tensione si stempera, riprendo a respirare.

“Seppellitemi insieme all’ultimo artista, perché inutile sarebbe la mia vita senza di loro”, scrissi un giorno, ma mi sa che se continua così, saranno costretti a seppellirmi prima.

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martedì, aprile 10, 2007

 

NOTTE SENZA ESAMI


E’ buio. Esco a camminare. La musica dell’ultimo concerto mi insegue per le vie del centro. Sono note malinconiche. Un intreccio di melodie d’altri tempi che trovano sfogo fra le pietre rosse di un’architettura medievale che va scomparendo. Mi raggiungono. Le sento addosso come le mani esperte di un vecchio amante che non voglio più. Canto a voce controllata. Sulla pelle il rossore di un sole che mi ha schiaffeggiata ancora una volta. Seguo i piedi che conoscono queste strade, ne ricordano i pericoli e sanno trovarne le bellezze.

Sono in via del Cestello, davanti a una palazzina decadente osservo la meridiana che un tempo scandiva le mie giornate di studentessa fuori sede. Ci ho vissuto tre anni in quella casa. Guardo le finestre accese. Qualcuno ha cambiato le tende. In quella stanza ho dormito con lei, l’amica del cuore. Quella che si metteva i miei abiti. Quella che mi prestava i pantaloni. Notti insonni a preparare gli esami. Feste di amici ubriachi che si scioglievano sui gradini di un bilocale colorato. E una gatta, figlia dell’istinto e madre di cuccioli mai nati.

Continuo a guardare le finestre accese. Un fantasma muove la sua ombra da una parte all’altra della stanza. Chi vive dove ho vissuto?

Mi avvicino al portone. I campanelli sono gli stessi. Ottone macchiato e un multistrato di etichette bianche sporcate da vecchi e nuovi nomi. La signora mora, abbronzata in ogni stagione, abita ancora qui. Un giorno le scoppiò il televisore. Un boato così non l’avevo mai sentito. L’astronomo dell’ultimo piano invece non c’è più. Peccato, era simpatico.

Il mio nome è stato sostituito da un altro, più breve, sconosciuto. E’ quel che accade dopo un addio, penso. Il passaggio di un testimone. Un nome si cancella, un altro prende il suo posto.

E’ solo una casa! Ripeto. Quattro mura di coccio. Intonaco e tintura. E poi io amo i traslochi. Cos’è questa tristezza?

Il portone di legno massiccio mostra gli stessi segni di allora. Un’incisione profonda di quel giorno che entrarono i ladri, piccoli sfregi disegnati dalle chiavi di mani impazienti e una fessura dove continua a ripararsi lo stesso ragno che tanto temevo.

Cosa aspetto? Cosa cerco?

Vorrei rivedermi spalancare le finestre. Salutare il custode del palazzo di fronte. Aprire i cassetti di un armadio dipinto di rosa e indossare ancora quella camicia bianca che mi piaceva tanto. Vorrei ricominciare da lì, dove tutto era ancora intero.

Guardo la finestra. La luce cangiante di un televisore batte il ritmo dell'ultimo spot pubblicitario. E’ finito il carosello, penso. Forse è meglio andare a dormire.

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martedì, aprile 03, 2007

 

NATA LIBERA


Sono nata di venerdì santo. Non posso essere stregata, mi ha assicurato mia madre. Non da maghi e fattucchiere. Ma non servono pozioni e intrugli colorati per incatenare una mente. Alcune prigioni hanno i cancelli aperti. Grandi finestre che si affacciano su mondi lontani da vedere e non toccare, come fossero i fili scoperti di un collegamento elettrico. Altre hanno il sapore del cioccolato.

Ho sentito spesso parlare di libertà. Ne parlavano le canzoni degli anni Settanta. Usciva dalle pagine di una letteratura che ha intrecciato storie sulle strade e illuso generazioni di sognatori senza passaporto. Ne parlava mia cugina in partenza per l’India alla ricerca di una spiritualità straniera.

L’ho vista dipinta sulle magliette. Disegnata sullo sfondo chiaro di una tela senza autore.

Ho imparato l’indipendenza da mio nonno. Lui diceva sempre che se non mangiava una pesca staccata dall’albero, da solo, in un pomeriggio di sole, non era estate. Un frutto, la sua libertà. Come la domenica dei miei tredici anni. Come un pomeriggio passato con Clara.

Frizzante penalista romagnola, in sella alla sua mitica 193 cavalli, Clara è l’amica storica delle mie giornate al sole.

Siamo a Milano Marittima, cuore glamour della riviera. Da anni non passeggiavo in quel salotto che sa di mare e di profumi di marca. Una bionda in cima al tacco porta a spasso l’ultima fragranza di Kenzo. Quella dell’uomo con gli occhi verdi è sicuramente Azzaro. Roccobarocco evapora dai polsi di una ragazza dai capelli lunghi scuri e Clarins circonda il collo di una vecchia signora che si sente trentenne. Io e Clara siamo in vetrina, sedute a un caffè e in compagnia di due bicchieri brindiamo al suo compleanno. Accanto a noi, il tronco di un vecchio pino buca il soffitto ed esce all’aperto come folto ombrello di aghi sempreverdi che riparano dalla voce della natura.

Clara è da sempre la fidata depositaria dei miei profondi segreti e l’autentica fomentatrice di tutti i miei sogni. Mentre ci sfilano davanti bocche siliconate in scarpe di coccodrillo e uomini dai volti tirati, scopriamo le carte e ci confidiamo fino all’ultimo pensiero bevendo vino francese. Al tavolo, una coppia di bicchieri si svuota mentre il posacenere perdona il vizio, accogliendo una dopo l’altra quelle sigarette che da tempo non fumavo. Passiamo dal riso al pianto come bimbe che cadono giocando e dal pianto torniamo al riso, mentre pensionati coi capelli tinti portano a spasso l’opportunismo di ventenni scosciate e uno dopo l’altro vedo passare i miei vecchi compagni di classe sempre più grassi e meglio vestiti. Le ore che passano sulle nostre divagazioni ci restituiscono parte di quella serenità che ci portavamo appresso negli anni dei catamarani al largo, quando l’abbronzatura non bastava mai. Erano gli anni della sabbia nelle pagine di un libro d’esame.

Le nostre parole sfumano come il finale di una musica nota. Il vino è finito. Il tempo a nostra disposizione scaduto. Lei deve tornare dalla sua bambina. Mentre io torno dentro l’uovo di Pasqua, ma basterebbe guardare la mia faccia per capire che non ci sarei mai voluta entrare.

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