giovedì, gennaio 25, 2007

 

D’amore non si muore


Ho imparato a riconoscere un addio quando ancora riempivo le pagine del diario di stupide fotografie di cantanti fascinosi e artefatti che, come i sogni di un allucinato, confondevano quei segreti che non osavo scrivere, mentre io, inondata di nuove scoperte, tenevo per me ogni dolore per non affogare.

In queste notti non riesco a dormire. Il pensiero, padrone di sé e traditore di tutti i miei più sani principi, si incunea fra la volontà e il sogno e mi lascia rovinosamente desiderare. Sogno spesso cavalli che si rincorrono nelle praterie e fuochi di castagneti che bruciano passioni domenicali.

Sono momenti in cui temo le conclusioni, detesto il fine serata, non amo il tramonto e come tutti gli inquieti ripenso alle cose passate e a coloro che ci sono transitati dentro. Agli “annegati” come direbbe mia madre.

Era ancora notte la prima volta che sentii un uomo piangere per amore. Io, studentessa e pivella mi trovavo concentrata sui metodi per la ricerca sociologica in un libro che profumava di stampa, con la copertina azzurra e cinquecentocinquantun pagine ancora da sfogliare, quando un angoscioso grido mi fece correre alla finestra. Nel palazzo adiacente, le luci di un piccolo alloggio al pian terreno erano accese, e oltre i vetri un ragazzo di quarant’anni dava sfogo alla sua pena. Le sue grida, così umanamente disumane, riecheggiavano dentro quel piccolo salotto arredato d’azzurro e nessun altro osava fiatare. Lui, vestito di scuro e capelli neri stava in ginocchio davanti al divano, abbandonato sui cuscini come un morto in mare. Il viso affondato fra le pieghe del tessuto. Piangeva. Urlava. Si dimenava. Calciava a colpi secchi un tavolino ribaltato.

Sentivo la morsa del dolore che strozzava ogni suo tentativo di ripresa e mi decisi di entrare nel suo spasimo. Afferrai il binocolo. Misi a fuoco il suo nome appiccicato sul campanello. Lo cercai sull’elenco e composi quel numero. Al suo pianto si sostituì il trillo del telefono. Rispose una voce senz’anima. Gli dissi di guardare dalla finestra e lo salutai con la mano. Gli allungai un cd di famose ouverture e una tazza di tisana al tiglio. Spettatore di quel film che è l’amore era rimasto sulla sua comoda poltrona in prima fila oltre la parola “FINE”. Qualcuno aveva spento le luci e se n’era andato lasciandolo al buio. Lo presi per mano e oltre il tendone di velluto lo riportai all’aria aperta. Non sorrise mai, ma smise di piangere.

Ho ripensato spesso a quella notte e alla fine degli amori. E forse sarà per questo che ho imparato a intuire le ultime battute, alzarmi dalla comoda poltrona in prima fila, voltare le spalle, e uscire dalla sala mentre continuano a scorrere ancora i titoli di coda.

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giovedì, gennaio 18, 2007

 

LE VOCI DENTRO


“Chi muore dorme in cielo” ripeteva mia nonna. Chi muore non parla più! pensavo di nascosto dalle fiabe, mentre vedevo che i morti finivano sotto terra.

Fin da bambina più che ai visi mi sono interessata alle voci. Precoce e bramosa di realtà iniziai a parlare molto presto. Mia madre sostiene che l’ho fatto per cominciare a contraddirla. Mio fratello che avevo tante cretinate da dire. Mio padre, come sempre, non credo si sia fatto un’idea in proposito.

La voce, quel suono prodotto dalla laringe che prende corpo sulle sue corde, è la quinta essenza dell’essere umano, l’ho sempre pensato. Ha dentro l’aria espirata ed è figlia maliziosa di un gioco di labbra, quella fusione di spirito e natura che rompe il dannato silenzio del nulla.

Forse è per questo che ricordo di più le voci dei visi. Quella di mio nonno era corposa e sapeva di anice e caffè. La mia prima amica parlava toscano. Il mio primo amore mentiva trangugiando fra una parola e l’altra.

Ieri notte, di ritorno dalla solita navigata, mi imbatto in un sito che aggiunge ansia ai miei pensieri già inquieti. C’è un programma che simula la voce umana! Per evitare che il buio ceda il passo all’anticamera di un non-mondo, metto le mani alle orecchie e le voci di una vita sono ancora tutte lì. Sento il mio vecchio cane abbaiare. Il pappagallo, becco ricurvo fra un groviglio di piume verdi, che risponde ciangottando. Sento la voce incerta di una vecchia su una sedia impagliata e quella sguaiata dei bambini che giocano alla guerra. C’è un uomo che grida il dolore di un braccio amputato. Un’amica che sghignazza dopo una caduta. Ci sono voci che cantano in spiaggia, altre che gridano sul letto di un fiume. C’è la voce di un maniaco che mi mette paura, quella attraente di un uomo che mi seduce al telefono. Poi sento quel ragazzo che conoscevo tanto tempo fa che, ignaro del suo vigliacco destino, intona un pezzo dei REM in un incontro fra amici e chitarre. “At the face!” diceva sempre quando sfilavo davanti alla sua stanza per mostrargli i miei cappelli. Una notte è andato a dormire in cielo, bruciando sull’autostrada che portava al mare. Spengo il dannoso ricordo. Estraggo la cassetta che gelosamente ho conservato, e ringrazio per aver avuto, un giorno qualsiasi, l’idea di registrarlo.

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venerdì, gennaio 12, 2007

 

CERTE NOTTI


“Ci sono notti che per niente al mondo cambierei” cantava il figlio di De André, canticchiava un tizio in bicicletta e, sono sicura, canterà qualcun altro prima o poi. Credo che più del giorno, sia la notte a lasciare la scia più lunga al suo passaggio. Qualcuno, forse, direbbe che il buio aiuta a vedere i dettagli, altri che nasconde la verità, ma una come me, che non ha ancora le idee chiare, ripensando alle notti andate ne ricorda una per stagione e cinque nel tratto di vita già marcato. Cinque perché è il terzo numero primo fra il tre e il sette. Cinque perché sono le dita della mano amica, perché sono le righe del pentagramma, ma soprattutto, cinque perché c’è chi me lo ha suggerito.

La prima che ricordo è una notte in montagna all’età di 10 anni. Era Natale. Stavo sdraiata in una vasca di acqua calda mentre mia zia, appassionata degli anni Quaranta, ascoltava “Besame Mucho” in una versione che credo di non avere più risentito. Lì, guardando il mio corpo cresciuto, ho scoperto i primi segni della mia femminilità.

La seconda è una notte romana. Una gita scolastica, la maturità alle porte e una fuga attraverso i cornicioni dell’albergo per raggiungere piazza Navona illuminata. Su quei gradini, stordita dal vento caldo e dalla birra gelata di pessima qualità, ho creduto che non sarei mai cresciuta.

La terza è una notte in bianco coi libri del primo esame. Stordita dal taylorismo e dal pensiero keynesiano, mentre mi chiedevo ancora se Lévi Strauss fosse l’inventore dei jeans stracciati, ho sentito la voce della conoscenza che mi consigliava di dormire.

La quarta è una notte d’amore. Una scarpa slacciata e un tatuaggio. Valicando quel corpo ho tracciato la mappa di tutti i piaceri.

L’ultima è quella appena trascorsa. Apparentemente insignificante e solitaria. In compagnia di un sapore orientale e un monitor acceso. Vagando per siti utili si è fatta strada un’idea. Io, ruffiana e cortese, l’ho invitata a restare e con lei ho iniziato il mio nuovo romanzo.

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lunedì, gennaio 08, 2007

 

Navigando lo so già, che la terra spunterà


Sono le tre del mattino. Bologna dorme un sonno tormentato. Qualcuno è ancora sveglio per parlare d’amore, qualcun altro sta sognando di precipitare nel vuoto. Gli ospiti della mia vicina di casa hanno portato il loro chiasso sotto il portico e l’effetto del vino comincia a scemare con la complicità del freddo che pian piano schiarisce pensieri appannati. Un coretto di voci non riesce a intonare una canzone ormai troppo vecchia di Tenco. Un cane abbaia di contrappunto.

Quando l’attenzione non mi abbandona, amo scrivere mentre la città riposa. Sento il camioncino della nettezza urbana che ritira la spazzatura, due pazzi in motorino che disputano la loro gara sui ciottoli di una strada antica, e un disperato che urla la sua solitudine alle auto parcheggiate. Davanti allo schermo acceso trovo le tracce del mio nuovo romanzo e qualche bella frase che ho appuntato per non perderla di vista.

La tentazione di “navigare”, quando è notte e nessuno mi chiama al telefono, è davvero forte. Parto con la promessa di visitare siti utili: tutto sull’editoria; le novità dell’ufficio stampa; come costruire un aquilone. E in poco tempo mi ritrovo a vagare per blog. E uno tira l’altro "come le maglie della catena dell’àncora" direbbe il mio amico marinaio. E’ davvero tardi quando mi imbatto in un elenco di esperienze di vita sul tema delle chat, riportate in un blog collettivo che raccoglie confessioni inconfessabili. Leggo. Trovo storie allucinanti di amori e amorazzi, amicizie e delusioni, consumate sul filo di una comunicazione online. Un fenomeno che dilaga, penso. Mi soffermo sulla storia di una ragazza che vive in una città d’arte. Le sue parole sono dirette. Scavano. Mentre lei, vittima dell’illusione, racconta di un incontro online con un tizio che vive in una città di operai. “Mi cercava ogni giorno – spiega - mi fece innamorare con le parole delle canzoni, mi disse ti amo e poi scoprii che stava solo scherzando.” Sorrido del suo dramma e vorrei scriverle. Comincio. Non so come continuare. Sarebbe banale e inutile esaltare il mondo offline. Entrambe sappiamo che gli inganni della rete sono gli stessi che possiamo incontrare per strada. Non me la sento di aggiungere la solita rassicurazione e l’augurio di un nuovo incontro. Non servirebbe un altro uomo a consolarla. Non voglio nemmeno snobbare il suo spasimo d’amore ridimensionando l’accaduto. L’occhio del ferito vede solo sangue. Comincio un discorso contorto e poco chiaro dove tiro in ballo mia madre che crede ancora che “chattare” sia una parolaccia, ma non approdo a nulla e cancello. Non capisco proprio come ci si possa invaghire così di un uomo senza volto e senza voce. Poi ricordo che un giorno, tanti anni fa, sotto il banco di un’aula universitaria, trovai un cartoncino con scritto TI AMO. Lo fissai per tutta la lezione e lo ficcai nella tasca della giacca portandomelo appresso per giorni. Quel biglietto è ancora lì, nello scrigno immaginario dei miei tesori, fra il fermaglio per i capelli che portavo alle scuole e la mia prima macchina fotografica, e ho capito che un “ti amo” non si butta mai via, nemmeno quello di uno sconosciuto.

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martedì, gennaio 02, 2007

 

CHITARRE E SEGRETI



Le feste se ne sono andate. Nelle nostre case restano gli avanzi mal conservati di panettone, nastri dorati, cesti infiocchettati e qualche cianfrusaglia in più. C’è chi si lamenta del pranzo coi parenti, chi prende gocce di Malox per sedare lo stomaco e chi invece ha camminato nella nebbia del nord immaginando volti sconosciuti. Io archivio questi giorni col bilancio di sempre: il calore di certi abbracci e una distesa di conchiglie sul davanzale della casa al mare.

Il rientro a Bologna dalla riviera è accompagnato da un freddo danese e una pigrizia brasiliana che mi impedisce di riprendere qualsiasi attività interrotta il giorno della vigilia. Non voglio scrivere e in casa mi sento come una ciambella cotta che continua a rimanere in forno. Affronto la tramontana rimpiangendo il tempo in cui ci si lamentava del mutamento climatico e a metà mattina mi ritrovo in un mercatino a meditare sul senso dell’usato. Sono circondata da anticaglie e vecchiume. Sugli scaffali, teiere panciute e servizi di piatti spaiati, sedie azzoppate, chiavi e frullatori, dischi in vinile e videocassette, cuscini ricamati e lenzuola di tela sono come orfani, animali al canile in attesa di un nuovo padrone. “Qualcosa troverai!” mi assicura una ragazza dal bancone. Gli sguardi pietosi di certi oggetti dimenticati hanno facile presa sulla mia volontà di riciclare. Qualcosa troverò, mi convinco. Sopra un banco in legno si scovano le ultime (si fa per dire!) novità: temperini in metallo a forma di macchina da scrivere, portacandele in rame, vasi dipinti, piatti da appendere e fra le chincaglierie e gli oggetti nuovi-invecchiati vedo il manico di una chitarra. La raggiungo e ne afferro l’estremità rischiando di travolgere bicchierini dorati e piattini da dolce che puzzano ancora di antiche credenze. E’ il manico di una vecchia Ibanez acustica liberato dal resto dello strumento. Mi ricorda quella che mi rubarono davanti a casa. Le sue dimensioni sembrano cambiate. I contorni sciupati. La laccatura opacizzata. Mi emoziono. In terra giacciono scatoloni di libri ammassati. “Sono sistemati in base a qualche criterio?” domando alla ragazza. “No, sono scriteriati!” risponde. Mi inginocchio e comincio a scartabellare gaia. E’ interessante vedere quanti libri finiscono ai mercatini. La settimana scorsa ho trovato perfino “La ragazza di Trieste” di Pasquale Festa Campanile. Piego la testa in un verso e poi nell’altro per riuscire a leggere tutti i titoli. “Io non ho paura”, vedo fra gli altri. Lo sfilo. E’ un romanzo di Niccolò Ammaniti. Copertina chiara, rassicurante come il titolo. Lo sfoglio. Sul frontespizio trovo una dedica: “Mi farà piacere custodire questo segreto con te. N.”

Mentre mi allontano sono un cappellino bianco, una sciarpa e una giacca col pelo che camminano nel freddo del nuovo anno. Rileggo la dedica sulla pagina di quel libro e non capisco perché faccia così ridere una donna che tiene al posto della borsetta il manico rotto di una chitarra!

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