martedì, ottobre 31, 2006

 

SPIRITO VICHINGO


Sono quasi le otto quando mi trovo in piazza Malpighi. Lui, con una bottiglia di vino vuota, il viso solcato come una mulattiera e l’alito che esala luridi pensieri, mi ha già notata. Io passeggio in un trench inglese e stivali aspettando il 14 fra commessi che smontano dai negozi del centro e donne con la spesa. Non mi toglie gli occhi di dosso. E’ vestito male e sento il suo fetore. Recito sicurezza mentre mi carico di cattiveria per affrontarlo. Insiste, continua a divorare con gli occhi. Mi mescolo all’impazienza dell’altra gente che con lo sguardo basso dice che devo cavarmela da sola. Allora mi getto in strada come una palla rotolata fuori da un cortile. Il traffico serale mi schiva senza rallentare mentre lui mi segue anche quando torno verso la fermata. Non ho scampo e lui approfitta della mia resa. Si avvicina, alza le mani per toccarmi. Cosa vuole? Il mio seno? Il mio collo? Il profumo dell’olio per capelli? Il tempo di un baleno e qualcosa di istintivo e selvaggio prende vita dalla mia voce e si trasforma in un grido vichingo sgraziato e potente che si va a schiantare sulla sua brutta faccia raggelata e impertinente, come l’urlo di certi venti del nord. Lui si agita, teme qualcosa e se ne va, mentre tutti mi guardano sorpresi, un cane abbaia e compare l’autobus.
Le prime avances poco gradite vennero da un amico di famiglia quando avevo solo dieci anni. Davanti alla gelateria mi raccontò di aver sodomizzato una bambina come me. Non dissi nulla e me ne andai a dormire piangendo. Poi ci provarono in tre quando dodicenne pedalavo su una bicicletta olandese portando nel cestino i libri di scuola. Mi affiancarono in auto. Mi fecero cadere, sbucciare un ginocchio. “Vogliamo divertirci un po’”, dicevano. Io corsi fra le case sfitte di un luogo di villeggiatura nella stagione morta e mi rifugiai nell’unico cortile con i panni stesi. Una donna uscì e li cacciò. Poi venne la volta del mostro al telefono. Chiamava, chiedeva di me. Aveva la voce adulta e adulterata e raccontava particolari della mie giornate che solo un guardone poteva conoscere, mentre diceva di volere delle cose sessuali. Quell’estate avevo appena compiuto quindici anni e i miei mi serrarono in casa fino alla primavera successiva.
Ho incontrato il maniaco con l’impermeabile in una sala d’aspetto della stazione e quello da spiaggia, che mi si buttò addosso sotto la doccia fredda. Il maniaco al supermercato e quello che ama molestare ai giardini pubblici. Poi un giorno denunciai un macchinista dei treni che mostrava il suo sesso dal vagone spento di un regionale fermo al binario, e così ho imparato a difendermi. Esco nascondendo i lunghi capelli sotto il bavero della giacca. Evito le stradine buie. Mi guardo le spalle fingendo interesse per le vetrine e indosso freddi sguardi viaggiando a passi lunghi e distesi, come un soldato che sa che prima o poi dovrà combattere. E ora, quel guerriero, ha imparato anche a gridare la mia voglia di essere lasciata in pace.

martedì, ottobre 24, 2006

 

Una fermata ai box


La malattia è l’assenza di salute per alcuni, e la manifestazione di un corpo sano per altri. In Occidente si interviene sul sintomo, in Oriente se ne cerca la causa. Gli americani si rivolgono alla chimica, i cinesi alla natura. Mia zia è stata operata quattro volte e sta ancora male.

Affetta da quel che viene chiamato il “mal di stagione”, e memore di tutte le volte che in nome degli impegni ho scarrozzato i miei malesseri in giro per la città, al primo sintomo mi sono barricata in casa. Luce soffusa, un paio di calzini caldi e qualche goccia di eucalipto negli umidificatori. A telefoni spenti vivo come un re che credeva di avere abdicato e riprendo possesso del mio tempo. Sento il mattino che passa frenetico sotto i portici mentre mi scaldo una tisana e leggo la biografia di Mary Steward. Passo il pranzo con brodino di verdure e riso integrale macrobiotico ascoltando Rino Gaetano e mi consumo il pomeriggio guardando “La città incantata” e leggendo vecchi articoli di giornale. A sera sento caldo, la fronte scotta, mi bruciano gli occhi e torno nel letto. Con la testa pesante affondata sul cuscino, il pensiero impigrito opta per il ricordo e rivedo tutte le mie malattie. Il morbillo a cinque anni, la varicella a sedici durante le vacanze di Natale, e decine di influenze ribattezzate ogni inverno con nomi diversi. Penso alla mano fresca di mia madre che misurava la febbre senza termometro. Al sapore dolce delle spremute d’arancia della nonna. All’album di Vasco Rossi che mi regalò mio fratello convinto che mi aiutasse a guarire. Della malattia amavo lo stare a casa da scuola, il rompere quel ritmo che portava monotonia alla mia vita, le coccole delle persone care. Era come una sosta a motore spento per gonfiare le gomme, controllare l’olio e fare il pieno di benzina prima di continuare il viaggio.

Mi addormento mentre sogno di dormire. Il respiro ritorna alla sua cadenza naturale. Il calore evapora come una pozza d'acqua sotto il sole e si porta via la spossatezza. Al risveglio sono un’altra. Spalanco la finestra per cacciare gli spiriti e sono pronta a riprendere il cammino.


venerdì, ottobre 20, 2006

 

Con l’aiuto delle fate


Se non fossi testimone della mia stessa esistenza, non crederei a quel che mi accade ogni giorno.

Dispiaciuta per la perdita del fumetto, ho vagato per ore sotto i portici tappezzando la città di avvisi disperati. Qualche “gentildonna” ha passato parola, qualcun altro si è imbattuto in questa storia e ci ha scritto due righe. Un paio di cari amici mi hanno portato una pianta di ciclamini.

Pensando a quei disegni e al pavimento sul quale erano scivolati ho creduto dapprima che li avesse raccattati il senzatetto che dorme davanti a palazzo Garganelli, poi un giovane occhialuto e timido, defilato dal gruppo. Li ho immaginati nella spirale tritatutto dei netturbini; sotto la ruota di un'auto in corsa; a rimuovere escrementi di cane sotto la scarpa di un passante distratto. Li ho visti appesi al frigorifero di uno studente fuori sede, accartocciati da un vecchio per appiccare il fuoco nel camino, nel sacco azzurro della raccolta differenziata dei rifiuti. Poi, mentre mi sto rassegnando alla loro assenza, il destino mi batte due colpi sulla spalla e fa squillare il telefono.

“Pronto.”

“Salve, ho letto sulla colonna del portico che hai smarrito la tavola di un fumetto. Credo di averla trovata.”

Mi emoziono e rimango in silenzio. Ingoio, come un cioccolatino consumato di nascosto, il pianto liberatorio che vorrebbe confessare una natura inguaribilmente romantica. Lei ride. E’ una ragazza, dice di chiamarsi Morgana, dice avere i miei disegni. Sbiascico: “Morgana? Mai nome fu più azzeccato!” Lei non smette di ridere. Mi racconta del vinaio, della gente che li ha calpestati e di sua madre che li ha sottratti alla strada. Dice che erano belli anche a terra, con le pedate dei passanti. Io non trovo parole per ringraziare. Vorrei abbracciarla, ballare un valzer, suonare le campane di San Giacomo. Lei è una disegnatrice. Vuole anche sapere come finirà la storia raccontata dal fumetto. A questo punto sorrido anch’io e sento chiara la mia disperazione che se ne va sbattendo la porta. La saluto con la mano, e con l’orecchio spinto sulla cornetta mi pare di ricevere forte e chiaro il battito della vecchia Bologna, quel cuore che, anche sotto la cenere, non ha mai smesso di pulsare.


mercoledì, ottobre 18, 2006

 

Fra sesso e rock & roll


“La prima volta che ho fatto l’amore non è stato un granché divertente” cantava Finardi, e da stamattina mi risuonano in testa le sue parole.

L’aria è frizzante a Bologna e i fantasmi della brutta stagione, come zombi, riemergono dal terreno infreddolito con il volto livido e gli abiti a brandelli, pronti a soffiarci addosso una gelida folata di vento del nord. La scuola, con i suoi odori, ha riportato i ragazzi sulle panchine dei giardini e nelle piazze a raccontarsi le avventure e, se rimango in silenzio, li sento bisbigliare i loro segreti. Io sono seduta con un libro sopra un tronco mozzato mentre mi godo una mattina con i miei pensieri, quando, le parole appena lette inciampano in altre che sento sibilare oltre la siepe. La voce è quella di una ragazzina coi pantaloni a vita bassa e il culo quasi di fuori. “Com’è stato?” chiede a un’amica seduta sul prato. Dal tono sensuale e curioso capisco che stanno parlando di ragazzi e ascolto come una sorella maggiore nascosta sotto il letto. “Non lo so!” risponde l’altra, adolescente e minuta, con la carnagione olivastra e un piercing sotto il labbro inferiore. Si guardano e ridono.

“Dai, dimmi com’è stato?” insiste intrigante la ragazza col culo di fuori.

“Cosa ti devo dire?” si ribella quella minuta.

“Lui com’è?”

“Un gran maschio!”

“Com’era vestito?”

“Aveva una camicia slacciata e la cintura alta nei pantaloni.”

A quel punto mi aspetto il timido racconto di un primo amplesso con tanto di simulazione di orgasmo alla “Harry ti presento Sally” quando sbuca una terza ragazza che grida: “Fede, le hai detto del concerto di Ben Harper?”

Chiudo il libro e penso che aveva ragione Finardi “…non era come nelle canzoni, mi avevano imbrogliato!”


domenica, ottobre 15, 2006

 

La Bologna che non c’è più


La mia casa ricorda il magazzino di un vecchio teatro di prosa. Ci sono decorazioni sbiadite sul soffitto, vecchi mobili di legno scuro, quadri accatastati e scatole di libri ancora da spacchettare. C’è un baule di reperti di un tratto di vita già consumata e casse in legno che contengono non so che. E’ piena di quegli oggetti orfani che ogni trasloco, come una guerra, produce al suo passaggio. Di tutto ciò che di superfluo ci portiamo appresso e non sappiamo né sistemare, tanto meno rinunciarci.

Dicono che sia bohémien la mia casa. Qualcuno si sente a Parigi, qualcun altro giura di vederci la Dresna del ’94. Io ci trovo la Bologna che non c’è più. Quella di fine Ottocento, quella del Carducci.

Da giorni cerco disperatamente la tavola di un fumetto perduta sotto i portici. Una settimana fa ce l’avevo per le mani e l’intensità di quei disegni mi aveva colpita come il grido di un innocente. Ero felice di aver scovato un fumettista così talentuoso. Poi, una mattina, esco di fretta per raggiungere la sede del giornale che ha commissionato il lavoro e lungo la strada il fumetto scivola dalla cartella e si deposita, silenzioso, sul pavimento alla veneziana, fra cacche di piccione e cicche spente. Ci accorgiamo della grave mancanza solo venerdì. Fiduciosa, percorro il tratto di via che ha visto inghiottire i disegni ma scopro subito che il vinaio li ha raccolti come carta straccia e messi in strada, sopra la cassetta della posta, pronti a prendere il volo con il primo autobus cittadino che avesse spinto un po’ sull’acceleratore. Mi dispero mentre lui rientra nella sua bottega senza mostrare il minimo dispiacere per la leggerezza del suo gesto. Sola, rimango a guardare i sampietrini che hanno rubato la bellezza a quei disegni. Tappezzo le colonne dei portici di avvisi nell’intima speranza che qualche animo sensibile li abbia raccolti e messi al sicuro, ma chiama solo un ragazzino che dice di avere trovato la tavola e di averla bruciata. Sfinita e delusa dall’indifferenza di questa città mi rifugio in casa dove trovo la Bologna che non c’è più, e a tende tirate torno indietro di cent’anni e sento la voce di un gentiluomo sceso dalla carrozza che sventolando la mia tavola grida: “Signorina, avete perduto i vostri disegni!”


giovedì, ottobre 12, 2006

 

Un pugno di note


Per dovere e per diletto vedo due o tre concerti a settimana. La musica si è depositata sulla mia pelle come polvere malefica di uno scoppio atomico che non posso più lavare via. Non c’è candeggio che riesca a ripulirmi di tutte le note che mi sono piovute addosso. Concerti nei club, concerti allo stadio, concerti nelle discoteche, concerti a teatro, concerti privati in ville da sogno e concerti in case antiche del centro. Vedo pianoforti ovunque e ingombranti contrabbassi, sento lo stridio dell’accordatura degli strumenti e inciampo nei cavi elettrici dei mixer. E’ una vita tra le note, penso, appesa al rigo del pentagramma, senza mai essere riuscita a leggere una sola partitura.

Ieri sera a Bologna suonava Fabrizio Bosso.

Mi trovo al club all’orario degli addetti ai lavori e i musicisti stanno cenando. Bevono vino da una bottiglia scura con l’etichetta amaranto. Sono cinque. Allegri. Parlano di magliette e felpe colorate. Lui, il trombettista ospitato anche dal sito della Monette, l’avevo visto solo in foto. “E’ un ragazzo tranquillo, la mattina legge molti giornali” direbbe De Gregori. C’è anche Diego Frabetti. Trombettista anche lui, un caro amico. Dice di essere diventato un “biasanot”. Spara battute come una mitraglietta sempre carica e non posso smettere di ridere. Sono le dieci e mezza. Il quintetto sale sul palco. Il pianista e il batterista si limitano a posizionare le dita. Io sono seduta in prima fila. Vedo la campana della tromba di Bosso e la bocca di un sax che non tarda a far sentire il suo talento. La musica attacca. I due si inseguono in un alternarsi di voci che urlano la loro verità, mentre la ritmica incalza alle loro spalle e sostiene i fraseggi. “Suona con tutta la cattiveria che ha in corpo” dice Frabetti. Per due ore non esisto. Rimango inamidata con il sorriso della meraviglia sul volto e un bicchiere di vino fra le mani che non riesco mai a finire. Sono zittita dalla sana prepotenza del suono e mi godo ogni minuto di quello spettacolo pensando a cosa sono capaci di fare cinque uomini sopra una pedana di quattro metri quadri.

La prima volta che vidi dei musicisti su un palco avevo tre anni. Erano gli anni più spensierati del secolo scorso e mia madre mi portava in piazza, la sera, ad ascoltare brani di lirica e vecchie canzoni napoletane. Io, poco più alta dello sgabello del pianista, rimanevo immobile a osservare la voce che prendeva vita nel corpo del tenore e se ne usciva potente e diretta come il sinistro di un peso massimo. Ho imparato in quegli anni che quel cazzotto va preso in piena faccia, senza opporre resistenza. E stamattina, allo specchio, avevo ancora un occhio nero.


lunedì, ottobre 09, 2006

 

IL PENNY DI ROMAGNA


Mi bastano due giorni in riviera per lavarmi via ogni stanchezza. Domenica mattina è una giornata splendida sulla spiaggia di Cervia. I bagni sono impacchettati per l’inverno e sulla sabbia ci sono poche impronte. Il mare restituisce lentamente il bottino sottratto ai bagnanti distratti. Fra conchiglie e rami spezzati ci sono ciabatte e pinne spaiate, occhiali e un orologio in plastica. Sembrano i resti di naufragi lontani, mercanzia di navi affondate al largo dalla ferocia di pirati balcanici. In autunno la riva è come il banco disordinato di un vecchio mercatino di stracci. Se frughi fra il vecchiume e le cianfrusaglie forse trovi qualcosa di inutile da portare a casa. Sulla battigia penso a ciò che ho perso in mare. Un orecchino a quindici anni, un accendino a diciassette e un pezzo del bikini a diciannove. Sembrano, nell’ordine, la perduta vanità, la scoperta del vizio e la rivelazione della lussuria. Ormai non mi pongo più domande su ciò che il mare conduce a riva. Un giorno trovai una parrucca bionda. Risplendeva al sole e fra i capelli arruffati si erano annidate alghe e piccoli molluschi. Mio nonno disse che l’aveva persa una sirena, ma io non ci ho mai creduto. I rifiuti delle acque sono organizzati in piccoli cumuli sparsi ovunque, adagiati sopra un letto di piccole telline bianche e rosa. Due giovani milanesi, nell’estate di qualche anno fa, trovarono la mano sinistra di una donna, in stato di decomposizione avanzata. A qualche giorno di distanza venne ripescata una gamba al largo e ogni volta che rimescolo a riva temo l’incontro con qualche altro pezzo di quel corpo scomposto. Nella bocca di un mitile schiuso, invece, vedo una moneta. “Chi trova un penny è fortunato!”, ci insegna il cinema americano e io trovo proprio un penny. Un penny, infilato nel guscio di una cozza, sulla spiaggia di Cervia, alle dieci e trenta di una domenica di ottobre. E’ di buon auspicio. Cammino godendomi l’azzurrità e canticchio un vecchio pezzo dei Bee Gees pensando alla fortuna. Raggiungo il porto e mi siedo sugli scogli. “Non c’è più la vela bianca, con l’inverno c’è il gabbiano” cantava l’orchestrina nelle vecchie balere. Dai Bee Gees a Raoul Casadei, in Romagna il passo è breve. Torno verso casa ad occhi chiusi con il viso rivolto al sole. Sulla porta, un dubbio si incunea nei miei pensieri. Dove ho lasciato la borsa? Mi avvio verso la spiaggia correndo. Salto le foglie secche spazzate ai lati della strada e raggiungo subito la riva. Pochi passanti, le conchiglie, i cumuli di rifiuti. Frugo le tasche sperando di trovare almeno le chiavi di casa e mi trovo per le mani il penny “portafortuna”. Tante grazie, penso. La solita americanata! Lo guardo, lo lancio in acqua e mentre ricade nella schiuma di un’onda ricordo di avere lasciato la borsa sul letto.


giovedì, ottobre 05, 2006

 

ZITTI ZITTI, IL SILENZIO E’ D’ORO


Qualcuno celebra il silenzio, qualcun altro sostiene che le persone parlino solo per trovare qualcosa da dire. Checov si raccomandava affinché la lingua non oltrepassasse il pensiero. Il mio professore di italiano credeva che “uno stolto che non dice verbo non si distingue da un savio che tace”. E mia madre è una fervida sostenitrice “del più bel tacer che non fu mai scritto”.

Oggi, mentre cammino sostenuta dalla nuvola di smog che ristagna sotto i portici di Bologna, provo a immaginare una città silenziosa e mi diverto ad azzerare il sonoro fingendo la sordità. Non sento così il rombo rintronante di vecchi autobus malandati, l’insistenza roboante e nervosa dei martelli pneumatici di muratori impolverati e stanchi, il suono dei clacson delle auto imbottigliate dai parcheggi in doppia fila, le urla delle sirene di croce rossa e volanti di polizia. Non sento il fischio isterico del pazzo che cammina saltellando davanti alle vetrine dei negozi e i commenti della signora Flavia che si lamenta perché una tizia le ha portato via il marito. Non sento il segnalatore per ciechi al semaforo, la lite di due cani che si azzuffano davanti alla farmacia e quell’uomo che urla al telefono la sua avversione.

Guardo la città come fosse sommersa dalla quiete dell’acqua e sguazzo beata per le sue vie nel giorno della festa del Patrono. I volti dicono più delle parole, i gesti commentano e il mio passo segue il ritmo delle note che mi suonano in testa.

Da Minerva, in via Castiglione, vedo il mio libro in vetrina. E’ fra l’ultimo di Grisham e un saggio sulla Grecia contemporanea. Come una madre premurosa, spero sia in buona compagnia. Non deve essere divertente sostare inermi in una vetrina del centro e sorridere ai passanti nella speranza di essere acquistato. Mi ricorda un cucciolo al canile che sogna di trovare presto un padrone. Gli suggerisco di abbassare le orecchie e scodinzolare di più, ma è in peccato d’orgoglio e non ama elemosinare. Non farà mai strada con quel carattere, lo rimprovero, e viro verso la piazza. Il vento è quello giusto, il mare forza quattro e il volume della città è sempre azzerato. Cammino “inseguendo solo i piedi”. Vista dall’alto sono un puntino che gravita a tempo di musica. Il centro di Bologna è come una gigante ragnatela con al centro due grossi ragni appollaiati, la torre degli Asinelli e quella appartenuta ai Garisenda e io come un piccolo insetto di campo mi avvicino sfidando la sorte. Turisti, passanti, studenti, negozi aperti, bar e serrande abbassate. La miscela di caffè sembra uscita da un tubo di scappamento, qualcuno si è dimenticato di cambiare la maglietta sudata e qualcun altro ha esagerato con il dopobarba. Il caos si fa più intenso. La città muta è un insieme di facce e smorfie dagli odori diversi. Dall’altra parte della strada c’è una tizia che conosco. Non voglio interrompere l’incantesimo parlando e mi nascondo dietro una colonna del portico come un ladro che tenta di rubare la quiete perduta. Come da copione sento una mano battere sulla mia spalla. Mi fingo sorpresa, metto in pausa i Pink Floyd, sfilo le cuffiette e mi rassegno al tornato rumore.


martedì, ottobre 03, 2006

 

DETECTIVE PER CASO


terzo episodio

(primo episodio - secondo episodio)

Ieri mattina, mentre rientro con il giornale fresco sottobraccio, becco una zingara sul pianerottolo che tenta di entrare in casa mia. La guardo interdetta e lei candida come una camelia dell’est mi domanda: “La signora che abita qui è in casa?”. La guardo stranita, realizzo che mi chiede complicità per svaligiare il mio appartamento e lei fugge dalle scale ridendo in una strana lingua. Barrico casa e me ne vado a passare il pomeriggio da Agata.

Da quella sera nel bosco un alone di mistero confonde l’immagine del nostro “amico”, l’impiegato con la villa sui colli, e scatena le fantasie di Agata che a volte sfociano in vere e proprie paranoie da single sposata con un marito che non c’è mai. “Mi vengono i brividi ogni volta che lo vedo!”, mi aveva confessato una sera al telefono.

La coda dell’estate quest’anno è lunga come lo strascico dell’abito da sposa di una principessa anglosassone. All’ombra della vegetazione collinare insistono ventisette gradi e il sole mantiene il colorito delle pelli sane. Nel giardino di Agata è cresciuta la lavanda che abbiamo seminato in luglio. Ho con me il binocolo del nonno e non vedo l’ora di rivedere cosa combina il nostro “amico”. All’ora del tè lo vediamo transitare per la stradina vicinale con la sua auto di lusso e un’ospite alla sua destra. Mi affaccio al lucernaio, inforco il binocolo e metto a fuoco il loro arrivo sul piazzale antistante la villa. La donna scende. Ha una borsetta rosso sangue e scarpe in tinta. Lui è tutto grigio, viso e capelli inclusi. Tiene in mano una valigetta porta-documenti e si muove come una biscia sul pelo dell’acqua di un fiume torbido. I due si fermano in giardino. Parlano. Lui entra dalla veranda e recupera un paio di calici. Bevono. Poi si attacca al telefono e cammina avanti e indietro come le guardie della regina danese. Si allontana, gesticola. “E la donna?” mi chiede Agata. La donna raggiunge sorniona la valigetta che lui ha lasciato sul tavolino in pietra e ficca il naso fra le sue scartoffie. Questo gioco di noi che spiamo lei che spia lui mi intriga parecchio e Agata ride. Ci passiamo il binocolo e la vediamo sfogliare, frugare e scandagliare finché non trova quel che cercava, lo ficca nella sua borsetta rossa, richiude la valigetta e torna a sedersi in giardino, mentre lui continua a sbraitare al telefono. Comincio a pensare che le paranoie di Agata non siano del tutto infondate. “Quell’uomo è strano!” mi ripete da giorni. “Non mi piace, e poi come se li è fatti tutti quei soldi?” Sull’eco delle sue parole vedo l’arrivo di un taxi. Lui stacca la conversazione. I due litigano mentre l’auto bianca parcheggia nel piazzale, aspetta qualche minuto e poi riparte portandosi via la donna, la sua borsetta rossa e le sue scarpe in tinta. Il nostro “amico” rimasto solo perde quell’aria aristocratica che contraddistingue le sue uscite mondane. Si versa da bere e ripulisce l’interno del naso con l’indice della mano sinistra. “E’ mancino!” Azzarda Agata. Passeggia nervosamente come una belva in gabbia. Poi si ferma, raggiunge quasi correndo il tavolino in pietra e apre la valigetta. Io e Agata non fiatiamo. Lui cerca confuso, s’innervosisce. “Se n’è accorto?” mi chiede Agata mentre lui continua a cercare finché estrae un pacchetto di fazzolettini di carta, ne sfila uno, si soffia il naso decentemente ripulendo con quel gesto il suo primo istinto e ripone la valigetta dentro casa. "E' un vero signore!" dico ad Agata, "Sì, il signore più pedinato di Bologna!"


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