domenica, marzo 25, 2007

 

L’acqua di una lacrima d’addio


Il cielo piange da stamattina. Le sue lacrime acide hanno inzuppato la città e sotto i portici sfilano impermeabili e giacche a vento che avvolgono anime raggelate in una giornata umida e ingannatrice. La pioggia batte colpi assestati alle finestre a nord e annaffia le piante che troppo spesso trascuro. Io le guardo tracannare acqua come maratoneti a fine gara. Sono forti e battagliere. Ogni anno provano a rifiorire. Si rinverdiscono e rinnovano il loro fogliame. Qualcuna cresce e genera altre piante. Qualcun’altra, con coraggio, muore.

Oggi il sole è mancato al nostro appuntamento, penso. E io che avevo comprato pure una camicia nuova…

Un tempo stavamo insieme fino al tramonto. Lo ricordo. Ci incontravamo sulla spiaggia. A volte era già lì all’alba e lo vedevo spennellare una tinta rosa sulla superficie di un mare piatto. “Che fai?” gli dicevo. “Cambi il colore dell’acqua?” Mi avesse mai risposto una volta!

Spesso mi raggiungeva al largo dove mi cullavo sopra una tavola da surf. Il suo tocco era gentile solo in apparenza. Mi strinava con l’aiuto del vento e la notte non dormivo dal dolore pensando a lui.

Se lo guardo mi acceca. Si prende i colori. Li mescola. Li fa tornare luce finché non li distinguo più. Se lo cerco si nasconde dietro nuvole complici.

Da sempre mi nega la sua bellezza e oggi ho deciso di tradirlo.

Esco in terrazza seguendo l’odore della terra bagnata. Due gocce mi scivolano sotto il maglione, come dita dal tocco lieve. Una terza si ferma sul viso, ne ridisegna i contorni con grazia e abilità. Poi arrivano le altre a crescere il ritmo insistente. L’acqua scorre sui capelli. Riflette sulle mani. Accarezza le spalle. La pioggia mi canta intorno e si raccoglie ai miei piedi infreddoliti. Respirando mi asseto come pianta in serra. Se mi vedesse mia madre penserebbe di aver buttato i suoi soldi per farmi studiare. Sorrido.

"Lucia ma che fai?" Grida una vicina. “Non vedi che piove?”

E’ una signora di mezza età, con la mano sulla testa cotonata.

La saluto e torno in casa.

Il cielo continua a piangere ma non so cosa fare. Bagnarmi era l’unico modo che conoscevo per consolarlo.

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martedì, marzo 20, 2007

 

ROMAGNA MIA


“Beata te che vivi al mare!” mi dicevano quando al mare vivevo. Mentre io, ragazzina un po’ ribelle e un po’ romantica, scalpitavo come giovane puledra di prateria, e sognavo la città in sella a una bicicletta rossa col contropedale.

“Voglio andare là dove si fa la storia!” confessavo agli amici. “Basta vivere nel culo del mondo!” rimproveravo a mia madre. Mi chiamavano “l’estrosa” perché amavo i cappelli e calciavo le foglie secche dai viali autunnali. Le mie “stranezze” offrivano spunti di conversazione e quel posto, che Grazia Deledda chiamava “il paese del vento”, è ancora il luogo da cui partire e quello a cui tornare.

Sono a Bologna dopo aver passato qualche giorno in quel tratto di riviera che mi è familiare.

“Beata te che sei stata al mare!” mi grida la vicina dalle scale. “Com’è andata la presentazione del libro?”

“Presentare il mio libro è facile.” Le confesso. “Mi basta rimanere composta e non disturbare mentre gli altri parlano di me.”

Lei mi sorride e io entro in casa infreddolita dalla coda invernale che ha ben assestato il suo ultimo colpo.

Ripenso alla spiaggia. Solo qualche giorno fa era scaldata da un sole sfacciato e io, temeraria e da sempre innamorata di lui, mi allungavo sul pareo che mi ha portato Agata dalla terra dello tsunami, e rimanevo in costume, arresa al suo calore.

Per tre giorni ho giocato all’estate con sandali di stoffa e grandi occhiali da collezione. A occhi chiusi mi sono concentrata sui profumi accompagnati dal vento, fra quel frusciare di sabbia che riempiva i secchielli della mia infanzia e il gorgoglio dell’acqua che ha stupito la mia adolescenza. Il calore ondeggiava sulla battigia deformando quei pochi corpi sdraiati, mentre io ascoltavo vecchie canzoni di Rino Gaetano.

Cosa mi manca di quella lingua di terra, quando i miei piedi calzano scarpe eleganti e mi portano a scorazzare per le vie di questa città?

Forse il mare? Tonnellate di acqua salata che scompaiono al largo nella linea di fusione con l’azzurro gassoso dell’aria?

I tramonti sulla pelle abbrunita? I falò notturni fra i segreti delle cabine?

Come uno studente impreparato guardo il vuoto, non rispondo e aspetto la domanda di riserva.

“Il paese del vento” non è lontano. Oggi mi basta una finestra a est per veder nascere la luce e scoprire che qualcuno ha sentito le mie parole senza avermi mai conosciuta.

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martedì, marzo 13, 2007

 

INNAMORATI A MILANO


Il ricordo è un modo per incontrarsi, ho letto da qualche parte. Ma nel ricordo non accade mai nulla di nuovo. E il ricordo dal tempo impara a mentire.

E’ tarda serata in stazione centrale. L’ultimo treno se n’é andato. Sa che non amo viaggiare in assenza di luce, senza le immagini, senza quelle cartoline inviate alla memoria. Sa che c’è tempo per ripartire. Che il binario non fuggirà. E sa che posso passare la notte a Milano.

Reminiscenze bugiarde di tempi in cui portavo il fiocco rosso sul grembiule di scuola la dipingono città grigia e triste. Ci venivo da bambina. Una zia, un palazzone senza ascensore con lunghe scalinate di marmo severo. Un campetto di bocce dove giocavano vecchi che avevano combattuto le due guerre e la noia dei musei. Nebbia, smog, confusione e ricordi in bianco e nero.

Dopo un pomeriggio passato in un locale egiziano con tre fabbricanti di sogni a buttare giù i primi venti passi di una sceneggiatura, cammino nella delicata brezzolina di una quinta stagione, che sorprende le previsioni e accarezza superfici sconosciute, come la mano timida di una giovane amante. Milano non è più la città grigia dei miei ricordi ingannatori. Milano è strade di gente colorata che vive la meraviglia di una sera mite. Milano è gli innamorati che escono allo scoperto come gatti vagabondi in cerca di cibo.

I primi li vedo attraversare la strada col cuore emozionato. Bocca su bocca, si lasciano guidare da quattro piedi tremolanti e un solo pensiero. Altri se ne stanno seduti al tavolino di un caffè. Occhi negli occhi, si perdono in parole nuove e vecchi batticuori. Due in un angolo, trascinati da una prorompente passione, regalano ai viandanti un bacio che non riesce a sedare le impetuose pulsazioni, mentre il loro bassoventre si cerca malgrado gli abiti, e una madre con le valigie chiude gli occhi al suo bambino.

Altri stanno a cullarsi sui divani di pietra. Lui fuma. Lei lo guarda. Gli accarezza il viso ossuto e lo trova bello. Altri due si abbracciano sorridendo a un obiettivo, che fermerà quell’immagine e la porterà al domani. Altri ancora aspettano, mano nella mano, che qualcuno venga a portarseli via e sperano nella notte.

Un amore che nasce a marzo è sotto il segno dei pesci penso. Come la canzone di Venditti, come i lettori di pescinellarete e come mia nonna, che dell’amore ha visto le fatiche e un’ora di tenerezza, arsa in fretta nel giaciglio di un fienile, in un pomeriggio di afa agli inizi del secolo scorso.

Il tocco del vento del nord mi dà i brividi e irrigidisce l’ultimo mio strato di pelle.

Gli innamorati mi scoprono curiosa. Varcano la soglia di un albergo. Chiudono la porta, e spariscono oltre il vetro.

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venerdì, marzo 02, 2007

 

LE PAROLE CHE NON SERVONO PIU’


E’ un pomeriggio di sole a Bologna. I portici trattengono le timide rigidità di un inverno mite e una ragazza coi polpacci grossi e le scarpe basse passeggia leccando un gelato. Tagli di luce attraversano il rosso dei tetti e riflettono moderni chiaro scuri sulle facciate dei palazzi antichi.

In giornate come questa amo camminare mentre il battito del mio tacco sta al ritmo di un cuore allenato, e insieme rintoccano una musica conosciuta che fa da sottofondo al mio vagare.

Davanti alle vetrine mi accompagnano le note di una fisarmonica, spinte fuori dalla noia di due braccia slave e all’angolo gli altoparlanti esterni di un barettino elegante soffiano una Vanoni a suon di samba che canta “vivere non è cercare dei perché, ma usar la bocca, gli occhi e il cuore”.

Sento il vento sulla faccia e lo lascio entrare sotto il trench che si apre e svolazza sui miei fianchi come la vela di un windsurf pronto a partire. Cammino verso la piazza con lo sguardo fisso sul Palazzo del Podestà che si intravede maestoso in fondo alla strada. Da questo punto della città appare inclinato e ricurvo come un vecchio che dorme sulla poltrona dopo pranzo. Vivo la città come fosse l’ultima volta e mi permette di vedere quel qualcosa che appartiene solo alle ultime volte. E’ quasi lo stupore dello straniero il mio. Lo sguardo di chi dovrà ripartire dopo qualche ora e scatta fotografie nella mente per portare qualcosa con sé.

Sotto il portico una ragazza sul suo banco di legno vende vecchie cartoline in bianco e nero e collanine di perle antiche. Mi sorride. Sfoglio qualche immagine ingiallita. Sono paesaggi, ritratti di famiglie in posa col vestito della festa e volti ritoccati che inneggiano un passato fascista. Bimbi, rose infiocchettate e spiagge non troppo affollate. E sul retro riportano le parole che non servono più.

Penso che se avessi un banco come quello potrei vendere anch’io vecchie parole e liberarmi del loro inutile peso. Parole di amici che non torneranno e antiche ninnananne che nessuno più canterà. Parole di esami sostenuti e dimenticati e parole di canzoni che mai più sentirò. Ma soprattutto parole d’amore. Quelle le regalerei. Ne farei un’esposizione ordinata e le darei agli amanti che si baciano nel vicolo e a quel ragazzo che da tre giorni sta scrivendo una lettera alla donna perduta. Ne avrei per tutti i gusti. Parole sussurrate all’orecchio in una notte di passione, parole scritte in rima col batticuore, parole inventate, parole di desiderio e parole di fantasie sentimentali, nomignoli e inutili promesse. Se avessi un banco come quello venderei tutto. Ripulirei gli scaffali della memoria cancellando fino all’ultimo “amore mio” e aspetterei la fioritura dei campi.

La ragazza del banco mi guarda curiosa. Compro una cartolina di Roma che riporta i saluti affettuosi di una donna dalla calligrafia cuneiforme che si firma Daniela T. e sulla strada del ritorno gli altoparlanti esterni del barettino elegante sparano le note di un Vinicio Capossela che si domanda “che cos’è l’amor”. Io sorrido perché ormai non ho più parole, e per quel che mi riguarda può continuare a chiederselo anche per tutta la notte.

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