martedì, giugno 26, 2007

 

ROMAntica città


Non tornavo a Roma dai tempi in cui vispa e malandrina portavo a spasso l’età della patente con una coda di cavallo e un orecchino nero.

Nei ricordi, una notte in Piazza Navona, la fuga attraverso i cornicioni di un albergo per studenti e una bellezza equamente diffusa che alitava sulla nostra sfacciata immaginazione.

E’ un pomeriggio assolato nella capitale. La bambina di Trastevere è uscita dal computer e mi è venuta incontro con le chiavi della città. “Dove vuoi andare?” mi domanda.

“Ovunque ci sia un pezzetto di questa città” rispondo.

Camminiamo sul terreno battuto di una fitta pineta che richiama il paese del vento. E’ l’ingresso di Villa Pamphili. Qualcuno dice fosse cara al D’Annunzio, qualcun altro corre sui suoi 184 ettari per smaltire i chili di pasti troppo ricchi e pensa al costume che sembra avere perso una taglia. Il prato si estende quanto lo sguardo, un cane color miele assapora la sua libertà mentre corpi scolpiti in bianco senza più teste, sembrano un invito a non pensare.

Se avessi un giardino così lo riempirei di rose gialle. Pianterei tulipani olandesi e viole mammole.

Se avessi un giardino così chiamerei gli amici. Traccerei il cammino con fiaccole tremolanti e riempirei i bicchieri di vino rosso ferroso.

Un albero a lunghe braccia e fronde generose ripara le nostre parole dal caldo che scioglie un gelato di soia.

Roma è un set. Ovunque guardi, ovunque sei, l’obbiettivo di qualche regista è già arrivato prima di te. C’è la Roma di Fellini, quella di De Sica. La Roma di Greenaway, di Pasolini. E’ un sogno di celluloide questa città. Eppure è un cuore che pulsa. Sono voci che gridano nei vicoli.

Se avessi mille corpi li lascerei vagabondare per le strade del centro. Uno sul Lungotevere, l’altro al Giardino degli Aranci. Uno in Piazza di Spagna, l’altro a Circo Massimo. Uno al fresco dei musei, l’altro a Villa Borghese.

Se avessi mille corpi non starei sotto un albero a respirare quest’aria eterna. Coglierei le immagini come fiori di campo e ne porterei un fascio a chi Roma non l’ha ancora vista.

“Dove vuoi andare?” insiste la bambina di Trastevere.

“Dove possa vedere tutto” rispondo io.

Come guida attenta e premurosa mi prende per mano. Percorriamo una strada in salita. Costruzioni eleganti, glicini e oleandri in fiore. Alla destra il Cupolone, a sinistra le case dei ricchi. L’auto si ferma. Davanti a noi una terrazza saluta dall’alto l’intera città. E’ il tramonto.

A ogni passo sento l’emozione battere come un disperato alla porta. I mille corpi tornano a uno a uno con una pellicola di foto scattate e un biglietto del metrò. Sono Fellini, sono Pasolini. Sono De Sica, sono Greenaway. Mi affaccio, e dall’occhio del mio obbiettivo vedo il paradiso.

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lunedì, giugno 18, 2007

 

IO BALLO SOLA



E’ un nuovo giorno a Bologna. Il mattino mi piomba addosso come calcinacci di un soffitto che crolla per un terremoto.

Quando qualcuno sfregia la mia fantasia con coltelli affilati, lascio gli incubi ingabbiati fra le trame di quel tessuto che mi ha coperta nella notte, apro l’anta di un vecchio mobile di legno scuro, sfoglio vecchi dischi in vinile e porto il mio corpo assonnato a scoprire le meraviglie di una vita che continua.

Era il 1981 quando morì. Romantico e triste, miscelava humour e sarcasmo con in testa un cilindro nero e la rabbia di un sud che pativa sotto il sole malato. Si chiamava Rino Gaetano e oggi canterà per me.

“Io scriverò” attacca con voce suadente “se vuoi perché cerco un mondo diverso, con stelle al neon e un poco di universo, e mi sento un eroe a tempo perso”.

Lo ascolto.

Abbraccio la copertina del suo disco mentre lui continua a cantare. “…io scriverò, sul mondo e sulle sue brutture, sulla mia immagine pubblica e sulle camere oscure, sul mio passato e sulle mie paure…”.

Lo guardo. Lui accarezza il cane. La puntina incide il solco del disco. Attacca “Hai Maria”.

“E quando tramonta il sol, una canzone d'amor, da Baja a Salvador, oh Maria per te canterò”.

Alle sue parole si alternano strumenti in concerto che sanno di fichi d’india e strade che si srotolano nella campagna meridionale. Il tamburellare di polpastrelli sulla pelle tesa dei bongos è un richiamo ancestrale al quale non posso resistere. Devo ballare.

A piedi nudi sul legno mi muovo seguendo il ritmo di percussioni latine. I miei fianchi si fanno mandolino e ancheggio battendo il tempo delle corde d’acciaio che si agitano sulla cassa armonica intarsiata. Il sangue pompa con nuova cadenza e la testa si lascia guidare dalle note che incalzano. Alzo le braccia. Alzo il volume.

“E questo sapore strano che è fatto di libertà mi dice che oggi qualcosa è cambiato in me
ahi Maria non sei più con me.”

Lui continua a cantare.

Le mie mani picchiano i piatti di un’immaginaria batteria. Le gambe sono manici di chitarre che cambiano coi passi gli accordi. Il respiro ansante si fa canzone.

L’aria che esce dalla campana delle trombe in sezione mi spettina i capelli.

Giro su me stessa, mi dimeno. Oscillo. Mi scuoto e divento calore.

Lui continua a cantare.

“E quando tramonta il sol, una canzone d'amor, da Baja a Salvador, oh Maria canterò oh oh…”

Io danzo, e mentre danzo sono metafora, come diceva Degas, oppure sono solo indemoniata, come pensava mia nonna. Ma il cuore vibra, assesta i suoi colpi, spinge l’emozione a risalire, e ogni volta che lo sento così, sono quasi felice.

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lunedì, giugno 11, 2007

 

FRANCESCO!



A Bologna non c’è il mare, lo sanno tutti. Tuttavia si sente lo scorrere dell’acqua dei fiumi padani che l’attraversano. Canali celati da un’architettura ruffiana, che trasportano bottiglie senza messaggi nell’umida oscurità di antichi sotterranei.

E’ una banale domenica cittadina ai giardini. Un prato di corpi al sole consola la voglia di spiaggia. Costumi, creme abbronzanti e strilli di bambini completano l’artificio e noi, vittime coscienti di un inganno, ci sentiamo in riviera.

Sul terreno erboso, che restituisce pigro l’umidità dei giorni passati, rotola un pallone americano. Una cane rincorre un frisbee fluorescente e una piccola donna porta a spasso una nuvola zuccherata che sa di sagra di paese e feste in piazza.

Sdraiata sull’erba ascolto distratta la goliardia di un gruppo di amici. “Quanto si mantiene l’insalata in frigo” e “quanti anni vivono i cammelli” sono solo l’inizio di uno scambio di battute che mi fa sorridere clandestina mentre nei miei occhi chiusi si stempera il verde di uno sguardo che non rivedrò più.

La bonaccia regna sul pomeriggio felsineo. I vecchi sbuffano l’aria fresca delle fronde degli alberi e strani tatuaggi blueggiano sulla pelle di pattinatori esperti.

“Francesco!” grida una mamma con una bibita fresca in mano.

Due ragazze si guardano e scoppiano a ridere.

“Francesco!” torna a chiamare.

“Queste donne non sanno nemmeno badare un bambino!” commenta un tizio col giornale sottobraccio.

“Francesco! Francesco!”, il grido insiste sicuro.

“Francesco! Francesco! Francesco!”, si fa disperazione.

I goliardi abbandonano le ciance e raggiungono la donna agitata. Il suo bambino ha cinque anni, pantaloncini chiari e una magliettina rossa. Dice che è sparito.

“Francesco!” torna a urlare.

“Francesco!” la voce si strozza.

Un comitato improvviso si mobilita. Zittiti, due uomini restano a guardare mentre la paura deforma il volto della donna che soffoca le lacrime in un altro grido.

Qualcuno chiama la polizia.

Nell’immaginario scorrono drammatici i fatti di cronaca. Pedofilia, rapimenti, mercato nero delle cornee. La donna continua a piangere e il tempo scandisce minuti interminabili.

“Francesco! Francesco!” chiamano in coro. Tutto il prato è zittito, gli sguardi si incrociano increduli quando fra i bambini che hanno smesso di sorridere e gli alberi che creano pericolose zone d’ombra, una maglietta rossa avanza piangente e avvilita. La madre lo vede senza guardarlo. Rinasce. “Cercavo solo una fontana!” biascica fra le lacrime. I due si abbracciano. L’allarme rientra. I ragazzi tornano al sole e mentre si sentono ancora voci gridare “Francesco!” io penso che quando ami qualcuno, non dovresti mai perderlo di vista.

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lunedì, giugno 04, 2007

 

E TI RICORDO ANCORA


E’ mattina. Un lampo deforma i contorni di ciò che sembrava familiare, un tuono spacca l’aria e la voce della natura urla la sua autorità sovrana sulle cose della vita.

Rimango nel letto ancora un po’ ad ascoltare i silenzi che fanno riaffiorare vecchie paure.

Il temporale in città è come uno spettacolo che va in scena nel teatro sbagliato. La scenografia è ridotta. Agli alberi che vacillano si sostituiscono ferrose antenne issate sui tetti delle case. Le comparse sono piccioni che si nascondono sotto i portici. L’acqua non disseta alcun terreno ma scorre lungo le pareti di antichi edifici in arenaria e ne modella i fianchi.

Ovunque è scroscio e una nuova freschezza si rovescia a secchiate sul pavé polveroso delle strade.

Il profumo è quello di bacche selvatiche e funghi velenosi che crescono sulle rare cortecce disseminate nei giardini nascosti.

Bologna rimane in apnea per non annegare.

Sono ancora nel letto avvolta da lenzuola gialle e capelli. Qualcuno, in qualche altra città, legge fumetti che non mi sono mai piaciuti e la mia vicina ritira velocemente i panni stesi imprecando in dialetto.

Un tempo stavo sulla spiaggia in giornate come questa. Là accadeva sempre qualcosa quando c’era un temporale. La luce rarefatta esaltava l’abbronzatura e mi godevo l’assenza dei turisti che lasciava la sabbia solo per me.

Quando si alzava il vento c’era anche lui. Era biondo, la madre irlandese, il padre pescatore. Portava la sua tavola da surf sulla riva e non parlava mai. Lo guardavo issare la vela, montare il boma e sparire lontano. Portava una muta blu cobalto che lasciava scoperte due braccia forti ed esperte e tagliava le onde come delfino impaziente. Io aspettavo sempre il suo ritorno camminando sul bagnasciuga mentre sbirciavo fra i capelli per non farmi notare. Affrontava il mare agitato. Lo domava come si fa coi giovani puledri che scalciano via le prime briglie, poi guadagnava la riva stanco e felice. Un giorno mi salutò con la mano e mi mandò un bacio. Alle sue spalle spariva un timido arcobaleno.

La pioggia si è calmata. Il rombo delle auto non copre lo strillare delle rondini. Presto tornerò nel paese del vento e spero faccia temporale.

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