domenica, settembre 09, 2007
FOTOGRAFIE
Cominciai a fotografare nell’estate dei miei sedici anni con una Minolta subacquea giallo girasole e la sorpresa di un’età che procurava turbamenti. I primi scatti azzardati, sullo sfondo di una spiaggia che sapeva di pizzette riscaldate e gelati all’amarena, ritraggono i visi di amici stagionali che il temporale di fine estate si portava via. Inquadrature casuali di sorrisi salati in quei preziosi primi attimi di libertà. Poi venne il tempo della Reflex, una Olympus del 1974 usata, compagna di viaggi nelle capitali europee e giovane amante smaniosa di ritratti e controluce. L’ho portata lungo i canali di Amsterdam, nelle fredde mattine di una Copenaghen ventosa, terra di vichinghi e di sfacciati occhi chiari. Mi ha seguita alle feste, fra bicchieri di carta e fette di torta lasciate a metà. Ha catturato i trilli di una tromba color argento suonata all’aperto e il chiaroscuro della tastiera di un pianoforte a mezza coda. E’ salita in montagna, scesa per le valli di un’estate che rifletteva nei laghi in compagnia di pescatori dall’alito che odorava di grappa bevuta alle quattro del mattino. Ha fermato le bizzarrie di un ragazzo che non ha più voce e quei pantaloni a zampa che mettevo in discoteca; campi di girasoli, passati amori e la pancia nuda e tesa della prima amica gravida.
Grazie alla fotografia ho conosciuto mia madre bambina, incontrato il volto intimidito di mia nonna in abito da sposa e scoperto la vecchia automobile a due posti che guidava mio padre quando ancora non avevo questa vita. Sulle immagini scattate ho desiderato e pianto. Sorriso e rivissuto. Alcune le ho incorniciate benché mosse, altre strappate anche se a fuoco giusto.
E’ notte. Sfoglio gli ultimi scatti di uno stravagante ritrovo in terra toscana. Davanti a me i volti familiari di un unico incontro.
Nella prima c’è un poeta. Il viso ossuto e aggraziato. Ha bei lineamenti e un cuore bambino. Nell'altra, un principe dai capelli rossi scruta pensante la collina di cacciatori in cerca di fagiani. Poi di nuovo il poeta, fuma e nasconde la stanchezza di una notte insonne. Qui, un fotografo con occhiali e barba curata cerca il suo scatto mentre una donna dagli occhi fatati abbozza un sorriso pensando di averlo già trovato. Nell’altra, i capelli di una giovinetta sembrano muoversi al vento. Qualcuno dall’accento romano lascia scivolare sul naso un paio di occhiali scuri. Qualcun altro dietro gli occhiali sembra nascondere un’improvvisa emicrania. Due uomini si guardano complici. Qui, ancora il poeta che tenta un tuffo in piscina. In quest’altra un ragazzo con la maglia verde sorride e non crede di essere fotogenico. Poi, il profilo sinuoso di una bimba che riflette nello sguardo vigile di due donne dal volto somigliante. E ancora il poeta che abbraccia una ragazza di quarant’anni e una panoramica del tramonto sulla distesa di ulivi.
Siamo tutti più belli quando sfuma la luce, penso. Le guardo e le riguardo. Una spirale di volti che si susseguono trattiene e imprigiona ogni mia fantasia e il silenzio della notte che sta passando si diluisce coi primi cenni di un’alba sonnecchiante e sorniona.
“Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento” diceva Cartier-Bresson, mentre catturava il minuto sbirciando dal mirino di una vecchia Leica. E forse è proprio questa eternità che sto cercando, ancora sveglia a quest’ora.
Etichette: il mondo di Lucia
venerdì, agosto 17, 2007
SOTTO UN MANTO DI STELLE

La mia estate romana continua.
Ho seppellito la tristezza in terra straniera e fra scatti fotografici e passi incerti sul ciottolato antico, mi godo il congedo dalle tensioni di una quotidianità inceppante e una nuova libertà che profuma di caffè d’orzo in tazza grande.
E' sera a Trastevere. I pochi romani rimasti in città si riversano sulle strade coi sorrisi abbronzati e voci impastate di gelato e birra fredda. I turisti vagano rapiti da tanta bellezza, sorseggiano gocce di meraviglia ed esprimono desideri che sanno di dolce vita e stornelli urlati. Una donna coi capelli bianchi spinge aria nel mantice di una fisarmonica e due ragazze in bicicletta si raccontano pezzi di vita rotolando copertoni sgonfiati con la felicità di ragazzine in sella a un primo appuntamento.
Sono in pizzeria a festeggiare il compleanno di una principessa esotica.
Quel che resta della città transita alle mie spalle, impastando lo scalpiccio di sandali e scarpe di tela al garrito di gabbiani in volo. Un'emozione si fa largo fra le voci del menù e assume il volto gioviale di quell'uomo brizzolato e paffutello che mi siede di fronte. Lui, attore napoletano dalla comicità innata e spalla di uno dei pochi uomini dello spettacolo che abbia mai amato veramente, è seduto a un tavolino in compagnia di giovani esuberanti.
E’ Lello Arena.
Gli occhi tristi di chi è troppo impegnato a guarire l’umore degli altri e quel luccichio che fa brillare il viso dei personaggi noti e attira sguardi di curiosi e stupore.
Lo osservo. Lui non mi vede.
Non ho mai provato grande entusiasmo per i famosi. A Bologna ne ho visti tanti. Da Cesare Cremonini a Biagio Antonacci.
Ho incontrato Gianni Morandi sotto casa, Franca Valeri sull’autobus. Ho camminato al fianco di Samuele Bersani in direzione aule universitarie. Ho salutato Ayrton Senna nel sottopassaggio al Gran Premio di Imola. Ho rifiutato un invito a cena da Nelson Piquet e sono stata in osteria con Alberto Tomba. Ho parlato con Neffa e Luca Carboni, Katia Ricciarelli e Claudio Santamaria.
Ho incontrato Roberto Benigni al Thai di Milano Marittima, Nicoletta Braschi in un noto ristorante bolognese, Eros Ramazzotti agli inizi della sua carriera e Vasco Rossi in un bar della via Emilia. Ho ricambiato l’occhiolino di Alessandro Haber davanti al teatro, il saluto di Patrizio Roversi in bicicletta. Ho rischiato di investire Jean Alesi con una Samba rossa in una mattina di aprile e ballato con Mick Hucknall dei Simply Red, con pantaloni a zampa d’elefante e una lunga collana di pietre rosse.
Lello Arena è ancora al suo tavolo. Ora lo guardo negli occhi e gli sorrido. Vederlo mi emoziona. Sarà perché vicino a lui aleggia ancora la smorfia di Massimo Troisi. Oppure perché parla di teatro, di musica, di attori. Oppure perché non sono mai stata a Napoli, ma questa sera è come se Napoli e i suoi mille culure fossero venuti da me.
Etichette: il mondo di Lucia
venerdì, luglio 27, 2007
JUST MARRIED

“Sposarsi non è difficile!” dice Andie MacDowell in Quattro matrimoni e un funerale. “Basta rispondere sì a tutte le domande che ti fanno.”
Sono al matrimonio dell’amica storica.
Nel giardino di una villa settecentesca dai decori e affreschi di pregio respiro aria faentina sotto un cappello a tesa larga e grossi pois bianchi e neri. Un prato all’inglese solletica il cuoio di scarpe nuove ed eleganti e un’orchestrina jazz accompagna un aperitivo in perfetto stile cerimonia.
Cosa mangio?
Sul tavolone imbandito vassoi di ostriche sopra un letto di cubetti di acqua gelata donano alla campagna romagnola quel profumo di mare che sta bene su tutto, come il color cuoio di certe borsette da signora.
Il chiacchiericcio degli ospiti fa da sfondo alle note di un sax che intona vecchie melodie.
Fra gli invitati, gli amici di sempre, fior di professionisti, donne pavone che mostrano ventagli di piume colorate e uomini ingessati nei colli inamidati delle loro camicie migliori.
Settecentocinquanta candele illuminano i vialetti in terra battuta dove D’Annunzio e Carducci amavano passeggiare, mentre bambine infiocchettate si rincorrono fra i tronchi secolari di generose fronde silenziose.
Sorseggio champagne e la guardo nell’abito prezioso. Un color avorio le avvolge le forme, i capelli biondi raccolti e intrecciati. Sorride.
Da studentesse passavamo intere estati a cuocerci al sole. Non ci bastava mai.
La rivedo nel suo costume color jeans. E’ sempre stata bella, aggraziata. Lunghi capelli biondi e un topless ostentato sulla tela che sapeva di sale del mitico catamarano di Giorgio.
Il marito è avvocato, come lei del resto, e ama farmi ridere.
Aspetto le sue battute come sketch di uno spettacolo appena iniziato. Scherza sul suo portafoglio alleggerito, sulle zie che aspettano ancora l’ex fidanzato medico e tutto segue il ritmo stabilito. Lancio del bouquet dalla balconata. Cambio d’abito per il dopocena e musica dal ritmo invitante. E poi, camerieri impettiti, fotografi irrequieti, il truccatore “truccatizzimo”, il testimone addormentato e una cascata di confetti impietriti nelle candele profumate.
Ballo, bevo, mangio e mi agito fino a notte. Con me gli amici che non vedevo da anni. Un medico bolognese e un farmacista di Firenze si agitano sulla pista illuminata. A guardarli sembrano due bambini ubriachi dalla gioia di una vacanza inaspettata.
Gli sposi ringraziano, si baciano e io sono felice e triste, e penso che quando l’amica convola a nozze, invecchi in dieci minuti.
Etichette: il mondo di Lucia
martedì, luglio 03, 2007
Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è

Un blog è come una piazza. Chiunque può transitarvi, a ogni ora. Ci trovi storie. Pezzi di vita come bocconi da fast food. Leggi e ingoi. Ci bevi dietro un sorso di birra scadente e te ne vai altrove. Quando hai fame ci torni. Mangi altre parole. Se sei sazio lasci anche commenti. Un pezzo di torta per chi verrà dopo di te. Una coca cola in lattina. Una sigaretta accesa.
Guardo le pagine del mio blog.
In quanti sono passati di qua?
Poeti e scrittori, discrete penne e dissacratori, opinionisti e curiosi, giornalisti e ruffiani. Viandanti del web che hanno alleggerito giornate di lavoro navigando al tempo di un click.
In quanti torneranno?
Chi verrà dopo di loro?
Un blog è come una piazza. Qualche volta è gremita di facce allegre, turisti che la fotografano. In altri momenti è buia, coi netturbini che spazzano via l’esuberanza del pubblico dell’ultimo concerto di beneficenza. Vi ritrovi vecchi amici in sella a una bicicletta, sguardi seducenti di passanti. E se hai tempo puoi fermarti a scambiare due chiacchiere col pazzo che urla al cestino dei rifiuti o con la signora che porta a spasso il cane pettinato alla moda.
Su un blog ci si arriva per caso. Segui l’istinto. Apri pagine come matrioske. Colori, sembianze, profili accennati di individui che si celano dietro immaginarie identità.
Anche oggi torna sera a Bologna. La luce sfuma sul rosso dei tetti, “la gente torna a casa davanti alle televisioni”, e mentre mi domando come siano finite le persone sul mio blog qualcuno mi cerca in chat.
“Ciao” attacca.
Rispondo al saluto.
E’ un ragazzo. Dice che scrive racconti. Dice che è capitato sul mio blog nel modo più strano che io possa immaginare.
Lo sfido a raccontare.
Non vuole farlo, dice di vergognarsi.
Spero che non cominci a dire porcate perché chiudo la chat e non la riapro più.
Mi chiede di non ridere. Prometto di non farlo. Inizia a raccontare.
Pare che qualcuno gli abbia letto le carte. Ma io che c’entro? Penso. Quel “qualcuno” gli ha suggerito un nome per cercare qualcosa che avesse a che fare col suo cammino. Quel nome era Lucia e lui l’ha cercato sul web.
Non riesco a mantenere la promessa e rido.
Lui non si arrabbia, ride con me.
E’ una serata strana. Il vento sbatte porte e finestre e al piano di sopra qualcuno discute vecchie questioni ormai note all’intero palazzo.
Un blog è come una piazza, penso. Un non luogo che mescola magia e immaginazione.
Non so ancora come tutti voi siate capitati qui. Certo che ne avete avuta di pazienza a seguire le mie storie. Avrei voluto servirvi le portate migliori, versare nei vostri bicchieri vini d’annata e brindare alle stagioni che incalzano. Ma è solo un fast food. Parole a buon mercato da consumare fra un volo di piccioni e un chewing-gum sputato che se non fai attenzione ti si appiccica sotto i piedi.
Etichette: il mondo di Lucia
martedì, giugno 26, 2007
ROMAntica città

Non tornavo a Roma dai tempi in cui vispa e malandrina portavo a spasso l’età della patente con una coda di cavallo e un orecchino nero.
Nei ricordi, una notte in Piazza Navona, la fuga attraverso i cornicioni di un albergo per studenti e una bellezza equamente diffusa che alitava sulla nostra sfacciata immaginazione.
E’ un pomeriggio assolato nella capitale. La bambina di Trastevere è uscita dal computer e mi è venuta incontro con le chiavi della città. “Dove vuoi andare?” mi domanda.
“Ovunque ci sia un pezzetto di questa città” rispondo.
Camminiamo sul terreno battuto di una fitta pineta che richiama il paese del vento. E’ l’ingresso di Villa Pamphili. Qualcuno dice fosse cara al D’Annunzio, qualcun altro corre sui suoi
Se avessi un giardino così lo riempirei di rose gialle. Pianterei tulipani olandesi e viole mammole.
Se avessi un giardino così chiamerei gli amici. Traccerei il cammino con fiaccole tremolanti e riempirei i bicchieri di vino rosso ferroso.
Un albero a lunghe braccia e fronde generose ripara le nostre parole dal caldo che scioglie un gelato di soia.
Roma è un set. Ovunque guardi, ovunque sei, l’obbiettivo di qualche regista è già arrivato prima di te. C’è
Se avessi mille corpi li lascerei vagabondare per le strade del centro. Uno sul Lungotevere, l’altro al Giardino degli Aranci. Uno in Piazza di Spagna, l’altro a Circo Massimo. Uno al fresco dei musei, l’altro a Villa Borghese.
Se avessi mille corpi non starei sotto un albero a respirare quest’aria eterna. Coglierei le immagini come fiori di campo e ne porterei un fascio a chi Roma non l’ha ancora vista.
“Dove vuoi andare?” insiste la bambina di Trastevere.
“Dove possa vedere tutto” rispondo io.
Come guida attenta e premurosa mi prende per mano. Percorriamo una strada in salita. Costruzioni eleganti, glicini e oleandri in fiore. Alla destra il Cupolone, a sinistra le case dei ricchi. L’auto si ferma. Davanti a noi una terrazza saluta dall’alto l’intera città. E’ il tramonto.
A ogni passo sento l’emozione battere come un disperato alla porta. I mille corpi tornano a uno a uno con una pellicola di foto scattate e un biglietto del metrò. Sono Fellini, sono Pasolini. Sono De Sica, sono Greenaway. Mi affaccio, e dall’occhio del mio obbiettivo vedo il paradiso.
Etichette: il mondo di Lucia
mercoledì, aprile 18, 2007
PAPAVERI SUONI E PAPERE

“Parlare di musica è come ballare di architettura” diceva Frank Zappa. Ma per parlare di musicisti bastano parole danzanti, penso io.
E’ serata di jazz al birrificio bolognese. Organizzare concerti mi porta a vivere i locali come luoghi di applausi e pubblico pagante. Ogni martedì è il “dietro le quinte” che mi spetta, l’accensione di quel motorino d’avviamento che imbastisce il tessuto di ogni esibizione dal vivo.
Quattro strumenti prendono posto sul palco. Dapprima si sistema la batteria, piatti d’ottone che rispondono alle frustate di due bacchette magiche. Poi il pianoforte, tasti in abito scuro sottobraccio a compagne vestite di bianco. Sullo sfondo si alza in piedi un contrabbasso, corde di un violino cresciuto, mentre un trombone buca il silenzio intonando un’aria d’oltreoceano.
Eccoli! Un quartetto di purosangue del jazz che impastano suoni swinganti al ritmo di bebop.
Stasera non ho appuntamenti, non ci sono giornalisti con cui parlare e mentre penso di diventare pubblico e viaggiare con le note, si fa avanti, puntuale come l’alba di un giorno che non vorresti, il primo inconveniente.
“Pronto Lucia? Sono il fonico.”
“I ragazzi sono già qui.” Lo rassicuro.
“Io non ci sarò!” Replica lui.
Comunicare a quattro musicisti in tensione che il fonico non ci sarà è come togliere la rete di protezione a un’acrobata prima del doppio salto mortale.
Ostento sicurezza e mi avvicino al mixer con aria esperta.
“Sei tu il fonico?” domanda il pianista.
“Sì”, mento io.
Se mi trovassi davanti alla pulsantiera di un Boing 747 sarei più rilassata e con un piccolo sforzo potrei trovare il pilota automatico e anche volare.
La serata ha inizio.
“Schiarisci il suono del trombone!” suggerisce il bassista.
Guardo le lucine lampeggianti e il senso di inettitudine mi ridisegna il volto. Davanti a me una serie infinita di pulsanti, leve e pomelli disposti con un criterio che ignoro completamente. Muovo una prima leva e alzo il volume generale delle casse. Un tuono di suoni invade il pubblico che chiacchiera sereno ai tavolini. Il silenzio mi rimprovera per primo, poi segue l’occhiataccia del batterista e io vedo solo le sue bacchette alzate.
“Schiarisci il trombone!” insiste il bassista.
Seguo con lo sguardo il cavo in ingresso che unisce il microfono al mixer e circoscrivo la mia azione ai pulsanti che lo riguardano. Sono otto. Quale sarà il colore chiaro?
Gli occhi del bassista mi supplicano.
Faccio ruotare sicura il primo. Nessun effetto.
Il bassista insiste.
Il secondo pulsante è rosso. D’istinto non lo toccherei ma devo uscire dall’impasse. Lo sfioro appena e di risposta parte un fischio d’allarme che trafigge anche i pensieri.
E’ il panico.
Sono come un cieco che guida nel traffico dell’ora di punta.
Il terzo pulsante è grigio, rassicurante. Ci riprovo e rimango in apnea per cogliere anche la minima variazione. Lo ruoto in senso orario e mentre continuo a non respirare il suono del trombone comincia a uscire dal tunnel che lo aveva intubato. Eccolo il colore chiaro, penso. Il bassista sorride. Ascolto quella melodia che ha riacquistato smalto e quei toni alti che mancavano.
La tensione si stempera, riprendo a respirare.
“Seppellitemi insieme all’ultimo artista, perché inutile sarebbe la mia vita senza di loro”, scrissi un giorno, ma mi sa che se continua così, saranno costretti a seppellirmi prima.
Etichette: il mondo di Lucia
martedì, aprile 10, 2007
NOTTE SENZA ESAMI

E’ buio. Esco a camminare. La musica dell’ultimo concerto mi insegue per le vie del centro. Sono note malinconiche. Un intreccio di melodie d’altri tempi che trovano sfogo fra le pietre rosse di un’architettura medievale che va scomparendo. Mi raggiungono. Le sento addosso come le mani esperte di un vecchio amante che non voglio più. Canto a voce controllata. Sulla pelle il rossore di un sole che mi ha schiaffeggiata ancora una volta. Seguo i piedi che conoscono queste strade, ne ricordano i pericoli e sanno trovarne le bellezze.
Sono in via del Cestello, davanti a una palazzina decadente osservo la meridiana che un tempo scandiva le mie giornate di studentessa fuori sede. Ci ho vissuto tre anni in quella casa. Guardo le finestre accese. Qualcuno ha cambiato le tende. In quella stanza ho dormito con lei, l’amica del cuore. Quella che si metteva i miei abiti. Quella che mi prestava i pantaloni. Notti insonni a preparare gli esami. Feste di amici ubriachi che si scioglievano sui gradini di un bilocale colorato. E una gatta, figlia dell’istinto e madre di cuccioli mai nati.
Continuo a guardare le finestre accese. Un fantasma muove la sua ombra da una parte all’altra della stanza. Chi vive dove ho vissuto?
Mi avvicino al portone. I campanelli sono gli stessi. Ottone macchiato e un multistrato di etichette bianche sporcate da vecchi e nuovi nomi. La signora mora, abbronzata in ogni stagione, abita ancora qui. Un giorno le scoppiò il televisore. Un boato così non l’avevo mai sentito. L’astronomo dell’ultimo piano invece non c’è più. Peccato, era simpatico.
Il mio nome è stato sostituito da un altro, più breve, sconosciuto. E’ quel che accade dopo un addio, penso. Il passaggio di un testimone. Un nome si cancella, un altro prende il suo posto.
E’ solo una casa! Ripeto. Quattro mura di coccio. Intonaco e tintura. E poi io amo i traslochi. Cos’è questa tristezza?
Il portone di legno massiccio mostra gli stessi segni di allora. Un’incisione profonda di quel giorno che entrarono i ladri, piccoli sfregi disegnati dalle chiavi di mani impazienti e una fessura dove continua a ripararsi lo stesso ragno che tanto temevo.
Cosa aspetto? Cosa cerco?
Vorrei rivedermi spalancare le finestre. Salutare il custode del palazzo di fronte. Aprire i cassetti di un armadio dipinto di rosa e indossare ancora quella camicia bianca che mi piaceva tanto. Vorrei ricominciare da lì, dove tutto era ancora intero.
Guardo la finestra. La luce cangiante di un televisore batte il ritmo dell'ultimo spot pubblicitario. E’ finito il carosello, penso. Forse è meglio andare a dormire.
Etichette: il mondo di Lucia
domenica, marzo 25, 2007
L’acqua di una lacrima d’addio
Il cielo piange da stamattina. Le sue lacrime acide hanno inzuppato la città e sotto i portici sfilano impermeabili e giacche a vento che avvolgono anime raggelate in una giornata umida e ingannatrice. La pioggia batte colpi assestati alle finestre a nord e annaffia le piante che troppo spesso trascuro. Io le guardo tracannare acqua come maratoneti a fine gara. Sono forti e battagliere. Ogni anno provano a rifiorire. Si rinverdiscono e rinnovano il loro fogliame. Qualcuna cresce e genera altre piante. Qualcun’altra, con coraggio, muore.
Oggi il sole è mancato al nostro appuntamento, penso. E io che avevo comprato pure una camicia nuova…
Un tempo stavamo insieme fino al tramonto. Lo ricordo. Ci incontravamo sulla spiaggia. A volte era già lì all’alba e lo vedevo spennellare una tinta rosa sulla superficie di un mare piatto. “Che fai?” gli dicevo. “Cambi il colore dell’acqua?” Mi avesse mai risposto una volta!
Spesso mi raggiungeva al largo dove mi cullavo sopra una tavola da surf. Il suo tocco era gentile solo in apparenza. Mi strinava con l’aiuto del vento e la notte non dormivo dal dolore pensando a lui.
Se lo guardo mi acceca. Si prende i colori. Li mescola. Li fa tornare luce finché non li distinguo più. Se lo cerco si nasconde dietro nuvole complici.
Da sempre mi nega la sua bellezza e oggi ho deciso di tradirlo.
Esco in terrazza seguendo l’odore della terra bagnata. Due gocce mi scivolano sotto il maglione, come dita dal tocco lieve. Una terza si ferma sul viso, ne ridisegna i contorni con grazia e abilità. Poi arrivano le altre a crescere il ritmo insistente. L’acqua scorre sui capelli. Riflette sulle mani. Accarezza le spalle. La pioggia mi canta intorno e si raccoglie ai miei piedi infreddoliti. Respirando mi asseto come pianta in serra. Se mi vedesse mia madre penserebbe di aver buttato i suoi soldi per farmi studiare. Sorrido.
"Lucia ma che fai?" Grida una vicina. “Non vedi che piove?”
E’ una signora di mezza età, con la mano sulla testa cotonata.
La saluto e torno in casa.
Il cielo continua a piangere ma non so cosa fare. Bagnarmi era l’unico modo che conoscevo per consolarlo.
Etichette: il mondo di Lucia
venerdì, febbraio 09, 2007
L'INCONTRO

Quando la paura scurisce i toni del mio pensiero e i desideri vi si perdono dentro e ci annegano, scendo dai tacchi, indosso scarpe sportive e porto le mie impronte sulla terra nuda.
Da ragazzina, in momenti come questo, camminavo sulla spiaggia finché la luce del giorno cominciava a sfumare. Seppellivo a riva, affidandolo a una conchiglia, il più intimo dei miei desideri, e aspettavo che si avverasse con la prima ondata che fosse intervenuta a riprendersi quella vecchia casa per molluschi. Credo sia per questo che ho sempre amato il mare in tempesta.
E’ già sera ai Giardini Margherita. Le auto incolonnate all’ora di punta sembrano scatole d’argento che sbuffano. I pedoni attraversano i viali infreddoliti e frettolosi e io cammino sull’erba bagnata mentre l’aria della notte comincia a penetrare più buia e mi adombra il respiro. Pensare fra gli alberi regala quell’illusione di natura che Bologna nega nel rosseggiare del suo mattone, e aiuta a ritrovare le cose perdute.
Il vialetto illuminato si sta svuotando. Un gruppo di studenti chiacchiera fra motorini e panchine piene di scritte. Uomini in cravatta tornano al parcheggio e un piccione tenta il suicidio gettandosi in picchiata dal tetto di una casa. Io, passo dopo passo, cerco i miei desideri affogati stringendo in mano una piccola conchiglia immaginaria.
“Hai una sigaretta?” mi domanda un ragazzo col cane al guinzaglio. “Non fumo più” lo informo. “Peccato!” ribatte lui. “Perché?” domando io. “Se fumavi te ne offrivo una!” risponde. Gli sorrido. Con quella giacca di pelle e il bavero alzato ricorda Al Pacino ai tempi di Serpico. Il suo cane, un terranova di grossa taglia, si avvicina smorfioso e mi lecca una mano. Quel ragazzo mi guarda e io fisso il nulla per non incrociare la sua voglia di conoscermi. Passeggiamo insieme. Lui parla. Io l’ascolto. Torno a sorridere. Ha capelli scuri e occhi nocciola e una cicatrice sul polso. Racconta la sua storia generoso e io non smetto di sorridere. Ha la carnagione olivastra, scarpe rosse e profuma di tabacco e legno selvatico. Camminiamo per ore. Il traffico va sfumando e la città sembra acquietarsi per riposare la stanchezza di un giorno qualunque.
Lui sta ancora parlando quando la macchia scura della notte comincia a rendermi nervosa. Le fronde degli alberi riflettono ombre sconosciute e ogni passo appare nemico. Scappo spaventata e torno verso casa quasi correndo. Sotto il portico, solo passi distesi e sguardi bassi. Un uomo sfreccia in bicicletta. Le serrande dei negozi sono abbassate. Le luci spente. Un autobus transita rumoroso. La paura mi insegue fin davanti al portone dove una brezzolina sembra portare l’odore di una burrasca lontana. Entro in casa pensando al ragazzo col cane e insisto per non perdere il ricordo delle sue parole. Accendo il computer e lo ritrovo sulle pagine inedite del mio libro.
Etichette: il mondo di Lucia
venerdì, gennaio 12, 2007
CERTE NOTTI

“Ci sono notti che per niente al mondo cambierei” cantava il figlio di De André, canticchiava un tizio in bicicletta e, sono sicura, canterà qualcun altro prima o poi. Credo che più del giorno, sia la notte a lasciare la scia più lunga al suo passaggio. Qualcuno, forse, direbbe che il buio aiuta a vedere i dettagli, altri che nasconde la verità, ma una come me, che non ha ancora le idee chiare, ripensando alle notti andate ne ricorda una per stagione e cinque nel tratto di vita già marcato. Cinque perché è il terzo numero primo fra il tre e il sette. Cinque perché sono le dita della mano amica, perché sono le righe del pentagramma, ma soprattutto, cinque perché c’è chi me lo ha suggerito.
La prima che ricordo è una notte in montagna all’età di 10 anni. Era Natale. Stavo sdraiata in una vasca di acqua calda mentre mia zia, appassionata degli anni Quaranta, ascoltava “Besame Mucho” in una versione che credo di non avere più risentito. Lì, guardando il mio corpo cresciuto, ho scoperto i primi segni della mia femminilità.
La seconda è una notte romana. Una gita scolastica, la maturità alle porte e una fuga attraverso i cornicioni dell’albergo per raggiungere piazza Navona illuminata. Su quei gradini, stordita dal vento caldo e dalla birra gelata di pessima qualità, ho creduto che non sarei mai cresciuta.
La terza è una notte in bianco coi libri del primo esame. Stordita dal taylorismo e dal pensiero keynesiano, mentre mi chiedevo ancora se Lévi Strauss fosse l’inventore dei jeans stracciati, ho sentito la voce della conoscenza che mi consigliava di dormire.
La quarta è una notte d’amore. Una scarpa slacciata e un tatuaggio. Valicando quel corpo ho tracciato la mappa di tutti i piaceri.
L’ultima è quella appena trascorsa. Apparentemente insignificante e solitaria. In compagnia di un sapore orientale e un monitor acceso. Vagando per siti utili si è fatta strada un’idea. Io, ruffiana e cortese, l’ho invitata a restare e con lei ho iniziato il mio nuovo romanzo.
Etichette: il mondo di Lucia
giovedì, dicembre 14, 2006
DIETRO LE QUINTE

Non sono più spettatrice da anni. “Organizzare eventi” come si dice o “lavorare con gli artisti” come amo definirlo io, ha cambiato il mio modo di assistere agli spettacoli. Mi soffermo sul palco, sulle luci, sugli attrezzi in scena, e sbircio dietro le quinte per avere l’anteprima di una sana tensione da pre-palcoscenico. Se poi lavoro nell’organizzazione, lo spettacolo diventa un dettaglio nel bel mezzo di una serata di speranze, dove finisco quasi sempre col chiedermi perché amo così tanto l’esibizione dal vivo.
Mi trovo in un locale di Bologna quando Anita mi chiede di seguirla in camerino. E’ agitata, concentrata sullo show. E’ l’attrice di punta e dovrà cantare cambiandosi d’abito fra uno sketch e l’altro. Il luogo non è convenzionale e portare un lavoro teatrale in un caffè richiede l’abilità di un giocoliere, pronto ad attraversare l’autostrada guardando fisso sopra la testa il lancio a tre metri di birilli e palline colorate. C’è parecchia gente.
Anita mi chiede di vestirla, di aiutarla con trucco e parrucco. “Sono bravissima! - l’assicuro – Vestivo modelle per le sfilate!” Il camerino è un piccolo sgabuzzino per le scope e i detersivi che porta dritti nel bagno della direzione. C’è uno specchio, un lavandino. “Meglio che al Comunale”, scherziamo. La tensione è equamente distribuita fra la regista e gli attori sulla scena, come un filone di pane di una confraternita di fedeli. E’ una questione di equilibrio, penso. Finché le loro gambe reggeranno il peso dell’intero impianto artistico ci saranno doni per gli spettatori. Anita freme. Scalda la voce. Inspira profondamente e butta fuori l’aria come il soffietto di un camino. Mentre si spoglia l’aiuto a indossare il costume della prima scena. E’ un abito lungo, verde e lucido come una bottiglia al sole. Afferro il tiretto della cerniera lampo e tiro con sicurezza verso l’alto. L’abito si chiude e la fascia come una sirena. Poi i dentini della cerniera tornano ad aprirsi riportando alla luce la sua schiena nuda e un piccolo tatuaggio annebbiato dal cerone. Richiudo la lampo e mi accorgo che manca un bottone. A pochi minuti dalla prima scena, la mancanza di un bottone è come l’assenza di un tratto di binario per un treno in corsa che sta fischiando il suo arrivo. Mi guarda disperata. “Cosa c’è?” domanda con un filo di voce. Non rispondo. Frugo nelle tasche, nella borsa e nel cassetto degli infortuni e trovo l’anello di un vecchio portachiavi e un cerotto. “Non preoccuparti, è tutto sotto controllo!”, la tranquillizzo. Lo spettacolo sta per cominciare. Vediamo le luci abbassarsi. Lei continua a truccarsi pregando la fortuna. Sento il suo batticuore che si sintonizza sul ritmo del mio. Non ce la farei mai ad affrontare un palco, penso, ma lei, sfrontata quanto basta, mostra il coraggio di una veterana. Con l’abilità di una sartina opero una breve modifica utilizzando l’anello come fermo della cerniera. Anita grida sottovoce. La sua pelle si sta tagliando per via delle estremità appuntite di quell’oggetto riciclato. “E’ un portachiavi” le dico. Lei mi guarda scoraggiata. Sfilo quel ferretto arrotolato dalla trama della stoffa e per l’agitazione mi cade. “Dai che devo uscire!” si raccomanda. Recupero l’anello, strappo coi denti una striscia di cerotto e avvolgo in fretta le estremità appuntite sulle note della musica iniziale. “Fatto!” Si volta verso di me. Le aggiusto al volo la parrucca e schizza sulla scena come le gocce di una pozzanghera violata da una mandria di bestiame in fuga.
Etichette: il mondo di Lucia