giovedì, luglio 12, 2007
QUI DOVE IL MARE LUCCICA

E’ piena stagione nel paese del vento. Sulle terrazze degli alberghi del lungomare file di teli colorati mostrano le bandiere di paesi lontani e ai bordi delle strade si accalcano le auto parcheggiate. Cammino sulla battigia mentre l’alba allunga le sue mani rosate su una spiaggia ordinata e ancora silenziosa. L’aria è frizzante e la brezza miscela il tempo restituendo un frullato di immagini ai frutti misti e papaia.
Avanzo pigramente e come il protagonista del mio romanzo penso ai miei primi desideri. Dall’acqua affiorano solo i miei piedi abbronzati che si fanno strada fra spruzzi e conchiglie rosicchiate e in questa porzione di tempo si sente solo il fruscio di assonnate onde mattutine.
In lontananza vedo il porto.
Continuo a camminare e già i primi bagnanti cominciano a depredare porzioni di spiaggia come pirati part-time mentre lontano troneggia il modesto grattacielo di Milano Marittima, testimone di sfacciate feste vip e banditore di un’asta riservata agli amanti delle passerelle.
Qualcuno corre sciogliendo muscoli e pesantezze invernali. Venditori abusivi stendono le loro merci contraffatte con occhi accorti. Vecchi e signore cotonate passeggiano inspirando aria a pagamento.
Continuo a camminare e attraverso il tratto di spiaggia libera. Una colonia di bambini sbraita la libertà della prima vacanza senza genitori. Le loro grida danno via al tam tam vacanziero che sale sul palco senza pretesa di applausi.
A ogni passo la spiaggia si colora di tinte in due pezzi e pantaloncini.
L’odore di abbronzanti copre la salinità del venticello di ponente e la quiete diventa caos. In pochi minuti il brusio di chiacchiere sotto l’ombrellone sovrasta la timida voce del mare calmo. Suonerie di cellulari, partite a racchettoni e pettegolezzi all’olio di cocco sono un coro stonato senza più direttore.
Mi faccio strada fra la gente. Il sole assesta le sue spinte luminose e una morsa preme sui miei polpacci poco allenati.
La meta è vicina.
Qualche passo ancora e raggiungo gli scogli che ne disegnano l’area.
Ecco il porto! Pensione di lusso per ormeggi da turismo e aia allagata di loschi traffici e scambi illeciti.
Sul pontile riconosco l’odore delle vele e dei carburanti.
Non so ancora perché stamattina ho camminato tanto per essere qua.
Da bambina ci venivo con mio nonno. Seduti sul molo aspettavamo l’arrivo dei pescherecci per vedere la fatica di uomini abbronzati che tornavano da una notte in mare. Li guardavo sistemare cassette di pesce saltellante e ascoltavo il loro dialetto forbito raccontare imprese impossibili. Ripiegavano le reti, si passavano il braccio sulle fronte e nelle loro canottiere macchiate mi sorridevano sempre.
A mio nonno non l’ho mai confessato, ma diventare pescatore era il mio secondo desiderio.
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giovedì, maggio 03, 2007
PITTORE TI VOGLIO PARLARE

La pittura è il linguaggio di chi preferisce segni e colori alla sterilità di certi discorsi. Perfetta per i sordomuti e sconosciuta ai pettegoli, la pittura è musica per gli occhi. A volte un canto, a tratti è rock. Se improvvisa è jazz. Nelle sue sfumature più lievi è una sonata classica.
Non sono una pittrice, ma quando spendo fino all’ultima parola e in fondo alle tasche non rimangono che briciole di sillabe, è del colore che ho bisogno, della sua naturale melodia e delle forme che escano dall’ombra.
“Sua figlia non imparerà mai a disegnare!” tuonava la mia insegnante delle prime classi. “Avete mai visto un pittore mancino?” Infieriva. Io che non avevo mai visto nemmeno un pittore, guardavo la mia mano sinistra e seguivo le linee di una vita che tutto poteva meno quella cosa lì.
E’ una mattina umida a Bologna. La città si riveste dopo l’illusione di un’estate e al piano di sopra qualcuno ha già messo a scaldare il caffè.
Sono in una stanza vuota, la mia futura camera da letto. Un pavimento in cotto antico guarda un soffitto spoglio a quattro lunghi passi direzione cielo. A quell’altezza starebbe bene una decorazione liberty, semplice, floreale, penso guardandolo. Ne ho già dipinti di soffitti e un fregio di quel tipo non è poi così difficile da realizzare. Ma la mia fantasia non conosce censura e nel chiaro scuro di un azzurro macchiato di nuvole, vedo due putti alati che portano a spasso ghirlande di foglie e fiori intrecciati.
“No, non puoi farlo!” ammonisce una vocina da dentro.
Perché no? Chiedo ingenuamente.
“Perché non hai mai dipinto un corpo.” Ribatte la vocina.
La pittura nasce dall’osservazione. Sarò meticolosa, assicuro io.
“Non basta osservare, serve più esperienza.” Insiste boriosa.
Guardo il soffitto. L’immagine dei putti torna a dominare sulle foglioline d’alloro e le forme geometriche che ridefiniscono lo spazio. Li vedo. Gli occhi socchiusi, i corpi floridi e sospesi.
Non posso lasciarli nel nulla.
Monto un vecchio ponteggio. Il metallo lucido alterna gocce seccate di elementi cromatici.
Sulla tavola di legno ci sono polveri dei tre colori primari e un sacchetto di carboncini. Un pezzetto di carta vetrata di grana fine, barattoli di pigmenti naturali, pennelli e una ciotola d’acqua pulita.
Alzo il volume della radio e mi arrampico fino all’ultimo ripiano.
L’odore dell’impasto colorato è un pomeriggio di giochi e pasticci in un dopo scuola di paese.
Guardo il mio braccio. La carne non è rosa, mi ripeto. C’è il giallo, il blu delle vene, l’ombra delle pieghe della pelle. Se non avessi imparato a osservare non mi sarei mai accorta di quanto bianco c’è sulle foglie bagnate. Non avrei mai visto l’ombra nelle forme. Non avrei mai notato che il mare di notte può essere giallo.
Con tutti i barattoli aperti sono come un cuoco che amalgama ingredienti e realizza creme invitanti e velenose che non possono essere assaggiate. La prima tinta è pronta. Troppo scura. Troppo rosa. Troppo fredda. Aggiungo una punta di giallo. Il colore si scalda ma è ancora troppo carico. Stempero col bianco. Aggiungo altra ombra. Ora è grigio. Una punta di Magenta e la tinta torna a rivivere. Ancora troppo scura. Altro bianco. Stempero con l’acqua. Troppo giallo. Raffreddo col blu ciano. Troppo spento. Ravvivo ancora col Magenta. Scaldo col giallo e spengo con l’ombra. Ultima puntina di bianco: eccolo!
Ora mi serve solo concentrazione e una buona dose di fortuna che mi guidi la mano. E se tutto andrà bene, presto mi sveglierò guardando due putti che danzano, del colore del mio braccio abbronzato.
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