venerdì, settembre 15, 2006
Senzatetto e Senzaocchi
Il primo clochard che incontrai a Bologna era vestito di nero. Lo chiamavano “Cristo” e aveva lunghi capelli unti, la fronte alta e stempiata, i pantaloni a zampa e una barba asimmetrica che gli copriva il collo increspato e arrossato dal vino e dal sudore. “Pèntiti, donna di poca fede!”, mi disse. Era scalzo e tracannava acqua fresca da quella fontana che ora non c’è più, come un terreno arido. I piedi insudiciati dai marciapiedi della città e le unghie lunghe e spesse. Guardai sbalordita. Non avevo mai visto un uomo ridotto in quel modo. Lui mi venne incontro. “Pèntiti! Pèntiti! Pèntiti!” ripeté con il ritmo di un’ascia che taglia un tronco. “Pèntiti, donna di poca fede!”, e io mi pentii di non aver scelto un’altra strada per raggiungere il centro. Il secondo clochard lo vidi di notte. Dormiva in una delle nicchie sotto il portico di San Giacomo Maggiore, le stesse che ora sono state chiuse con enormi pannelli di legno oltre i quali possono riposare solo fantasmi murati. Era rosso di capelli, sembrava uno straniero, forse irlandese. Non aveva coperte, né guanciali e teneva in mano una cipolla mangiucchiata. Era freddo e provai misericordia per la sua notte gelata e ripugnanza per il suo cibo lasciato a metà. Ne vidi tre nel sottopassaggio della stazione avvolti in una nuvola acre di piscio e madore. Erano sdraiati a terra. Uno fumava, uno si grattava la testa e uno sputava l’ultima sorsata di birra calda. I viaggiatori con gli sguardi delatori affrettavano i loro passi verso quei binari che li avrebbero portati altrove, mentre io non volevo respirare quel fetore e mi coprivo con le mani la bocca. Poi ne ho visti altri senza mai guardarli. Illusioni ottiche che vagano nella nebbia. Finché una sera, vicino ai cassonetti della spazzatura, ce n’erano due che facevano l’amore. Uno sull’altra, dentro una grande scatola di cartone che lasciava fuori solo quattro piedi neri, mugolavano di piacere a un passo da un convento. Non avevo mai pensato prima che due vagabondi potessero accoppiarsi in quel modo. Come gatti sotto una buona luna o come uomini primitivi sul fondo di una caverna. Credevo che il rito della seduzione si costruisse sulla bellezza, sui profumi, sul desiderio del corpo altrui. E credevo che i senzatetto non avessero un sesso. Ma capii che a forza di ignorarli, di loro non avrei mai saputo nulla.
Un anno fa se ne andava il mio prozio, clochard per non aver sopportato la morte della moglie. Dormiva in un rudere a cielo aperto con una trentina di gatti e una turba di piccioni. Non ha mai voluto tornare, e io credo di sapere il perché.
(“Senza tetto irlandese” foto la Repubblica)
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