venerdì, dicembre 11, 2009
Per te che ascolti il mio disco quasi solo ridendo
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martedì, ottobre 23, 2007
Io scriverò, se vuoi perché cerco un mondo diverso
Il mattino è la giusta chiave per aprire la giornata, mi sono ripetuta appena sveglia spruzzando acqua fredda sul viso. E svelare la serratura così di buonora può scansare l’ignavia del giorno qualunque.
L’autunno scalda la sua voce frizzantina in assonnati gorgheggi che riecheggiano sotto i portici e io aspetto l’autobus con le mani in tasca e la tranquillità di chi sa che prima o poi lo vedrà arrivare. L’odore dei banchi di scuola si mescola all’aroma del caffè d’importazione. La brezza che mi solleva il bavero del trench mi fa sentire come il quotidiano della città sfogliato di fretta davanti a un latte macchiato, mentre il chiacchiericcio di due donne senza età sovrasta il rombo di motori a scoppio che sporcano le strade un tempo battute dalle carrozze di signori in abiti eleganti.
Amo questa città perché ci vivono gli artisti, pensavo quando, studentessa in jeans, correvo a lezione con una vecchia legnano da uomo che sapeva di cantina. Oggi la amo perché il rosso della sua pietra suggerisce storie da raccontare.
E’ agli scritti che penso quando aspetto qualcosa o qualcuno.
I pensieri varcano nuove frontiere e l’immaginazione imbastisce fatti mai accaduti con l’abilità del menzognero impegnato a nascondere le sue vere intenzioni.
I personaggi possono nascere ovunque, mi ripeto. Sotto i cappelli dei passanti, lungo i marciapiedi imbrattati di escrementi di cane e cicche spente, in due occhi chiari che si specchiano nella vetrina di un negozio di strumenti musicali.
Sfilo una penna dalla borsa e abbozzo un paio di frasi suggerite dal mio umore al risveglio.
Non mi domando mai perché scrivo. Lo faccio e basta.
L’autobus non si vede ancora mentre mi raggiunge la telefonata di Giuseppe Merico, scrittore salentino conosciuto in rete una mattina d’agosto, quando il mio universo prometteva parole criptate che ancora non riuscivo a decifrare. La sua è una voce che sa di tabacco e sughero da ornamenti, penso.
“C’è un pipistrello” dice. “Lo vedo, l’hanno imprigionato nella loggia di Palazzo Bentivoglio.”
Queste sparate le conosco. Devo ignorare il suo trip o finirò per vedere le ali trasparenti volteggiare su di me.
“Spaghetti alle vongole e paganelli fritti, che te ne pare del pranzo di oggi?” propongo io.
“Il pipistrello non può uscire, rimango qui con lui. E poi cosa sono sti paganelli?” continua.
Potrei raggiungerlo al Palazzo e vedere che il pipistrello non c’è, ma non voglio seguire le fantasie mattutine di un cervello del sud che sa scrivere meglio di me.
Insisto per il pranzo. Da casa sua potremmo sentire lo scorrere del fiume e vedere il giardino di alberi da frutto che inverdisce il castello con vetrate e finestrelle a bifora.
“Passiamo dal mercato del pesce!” continuo.
“Prima devo sistemare la faccenda del pipistrello” ribadisce lui.
Quando Giuseppe si mette in testa qualcosa, le intenzioni si aggrappano ai suoi capelli rasta e lì si attorcigliano ineluttabilmente finché una vecchia donna africana non prova a pettinarlo con la fermezza di una madre che lo vorrebbe in abito da sera.
“Lascia stare il pipistrello!” suggerisco. “Ti preparo un bel pranzetto.”
“La domenica non riesco a scrivere” mi rivela. “C’è una donna che spazza il cortile e non riesco a scrivere” spiega.
“Ma oggi è lunedì” preciso io.
“Già!” replica lui soddisfatto. “Noi siamo tipi infrasettimanali.”
E già non sento più la sua cadenza.
Lo vedo camminare fra la folla di un inizio settimana con le sue parole scritte su un tovagliolino bianco. Lui non si domanda mai perché scrive. Lo fa e basta.
Il sole si fa largo fra i palazzi che fiancheggiano la via. In fondo alla strada vedo sbucare l’autobus.
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martedì, settembre 25, 2007
LA SENTI UNA STRANA STAGIONE
“Si è spento il sole e chi l’ha spento sei tu” cantava Celentano fra i solchi di un vecchio vinile di mia madre che ascoltavo da bambina, seduta sul gradino in pietra della casa al mare.
Ma il sole sembra non spegnersi mai nel paese del vento e insiste spocchioso sulle schiene degli ultimissimi vacanzieri che giocano a racchettoni e leggono romanzi ben pubblicizzati sorseggiando il liquido sciolto di sintetiche granite alla menta.
Pedalo sul lungomare di aiole fiorite e nuove rotonde, con pantaloni arrotolati e cappellino, in cerca di notizie per conto di una rivista il cui nome, Spiagge d’Italia, sa di sabbia nei risvolti dei pantaloni e grigliate di pesce all’aperto. Con me, una macchina fotografica, un block notes di carta ecologica e un telefonino. Illusione, con sportellino, di un improbabile contatto col mondo.
“Scrivere di spiagge è lavoro per te!” mi ha assicurato l’amica storica davanti a una sangria in bicchiere grande. E cercare notizie fra gli ombrelloni chiusi può essere più stimolante di un pomeriggio in compagnia di un russo che parla un inglese peggiore del mio e non conosce una sola parola di italiano.
Dalla strada le insegne degli stabilimenti abbandonano la sfida stagionale dopo essersi litigate fino all’ultimo bagnante mentre qualcuno sta finendo di lavare sdraio e lettini e sogna di svernare in Polinesia.
Mi fermo a scattare qualche foto e una donna dai capelli bianchi e orecchini di vecchia fattura si avvicina col sorriso di chi ha qualcosa di cui parlare.
“A vederti mi viene in mente una sola parola: indipendenza!” attacca. “E anche libertà!” aggiunge.
Mi immagino Lady Liberty nel porto di New York, con fiaccola e corona a sette punte.
Le sorrido.
La donna si avvicina.
“Ho compiuto ieri ottant’anni!” dice.
Avrei giurato meno, penso guardando la vita pulsare ancora nei suoi occhi chiari.
Mi racconta di lei. Della sua lotta per essere libera. Della sua incredulità d’essere invecchiata. Il volto aristocratico, austera e dolce come le donne del passato. La voce pacata, le pause a cercare la cosa giusta da dire, con l’aria di chi sente che il tempo in scadenza non le permette rettifiche o ritrattazioni. Sto bene con lei. Dice di chiamarsi Loredana. Mi accarezza i capelli. La lascio fare. “Anch’io li portavo così lunghi, sai?” dice toccando la punta della sua acconciatura fresca di parrucchiere. Sedute sul muretto insabbiato dall’estate appena passata ci godiamo l’aria di un altro pomeriggio che se ne va.
L’autunno ha già fatto il suo ingresso e ruba ogni giorno qualche minuto di luce, penso. Presto la campagna vestirà i suoi colori. Una scala cromatica di rossi e gialli dipingerà il fogliame prossimo alla caduta e l’odore di castagne sul fuoco darà un nuovo aroma ai vicoli in città.
“La libertà è poter cambiare idea” convenni un giorno con un’amica di blog, “...e poter invertire l’ordine delle stagioni”, aggiungo io. E anche se la prima foschia della sera annuncia il tempo degli stivali e dei maglioni a collo alto, io giurerei di aver visto un campo di primule, più in là, dove qualcuno si prepara per il giorno di festa.
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domenica, settembre 09, 2007
FOTOGRAFIE
Cominciai a fotografare nell’estate dei miei sedici anni con una Minolta subacquea giallo girasole e la sorpresa di un’età che procurava turbamenti. I primi scatti azzardati, sullo sfondo di una spiaggia che sapeva di pizzette riscaldate e gelati all’amarena, ritraggono i visi di amici stagionali che il temporale di fine estate si portava via. Inquadrature casuali di sorrisi salati in quei preziosi primi attimi di libertà. Poi venne il tempo della Reflex, una Olympus del 1974 usata, compagna di viaggi nelle capitali europee e giovane amante smaniosa di ritratti e controluce. L’ho portata lungo i canali di Amsterdam, nelle fredde mattine di una Copenaghen ventosa, terra di vichinghi e di sfacciati occhi chiari. Mi ha seguita alle feste, fra bicchieri di carta e fette di torta lasciate a metà. Ha catturato i trilli di una tromba color argento suonata all’aperto e il chiaroscuro della tastiera di un pianoforte a mezza coda. E’ salita in montagna, scesa per le valli di un’estate che rifletteva nei laghi in compagnia di pescatori dall’alito che odorava di grappa bevuta alle quattro del mattino. Ha fermato le bizzarrie di un ragazzo che non ha più voce e quei pantaloni a zampa che mettevo in discoteca; campi di girasoli, passati amori e la pancia nuda e tesa della prima amica gravida.
Grazie alla fotografia ho conosciuto mia madre bambina, incontrato il volto intimidito di mia nonna in abito da sposa e scoperto la vecchia automobile a due posti che guidava mio padre quando ancora non avevo questa vita. Sulle immagini scattate ho desiderato e pianto. Sorriso e rivissuto. Alcune le ho incorniciate benché mosse, altre strappate anche se a fuoco giusto.
E’ notte. Sfoglio gli ultimi scatti di uno stravagante ritrovo in terra toscana. Davanti a me i volti familiari di un unico incontro.
Nella prima c’è un poeta. Il viso ossuto e aggraziato. Ha bei lineamenti e un cuore bambino. Nell'altra, un principe dai capelli rossi scruta pensante la collina di cacciatori in cerca di fagiani. Poi di nuovo il poeta, fuma e nasconde la stanchezza di una notte insonne. Qui, un fotografo con occhiali e barba curata cerca il suo scatto mentre una donna dagli occhi fatati abbozza un sorriso pensando di averlo già trovato. Nell’altra, i capelli di una giovinetta sembrano muoversi al vento. Qualcuno dall’accento romano lascia scivolare sul naso un paio di occhiali scuri. Qualcun altro dietro gli occhiali sembra nascondere un’improvvisa emicrania. Due uomini si guardano complici. Qui, ancora il poeta che tenta un tuffo in piscina. In quest’altra un ragazzo con la maglia verde sorride e non crede di essere fotogenico. Poi, il profilo sinuoso di una bimba che riflette nello sguardo vigile di due donne dal volto somigliante. E ancora il poeta che abbraccia una ragazza di quarant’anni e una panoramica del tramonto sulla distesa di ulivi.
Siamo tutti più belli quando sfuma la luce, penso. Le guardo e le riguardo. Una spirale di volti che si susseguono trattiene e imprigiona ogni mia fantasia e il silenzio della notte che sta passando si diluisce coi primi cenni di un’alba sonnecchiante e sorniona.
“Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento” diceva Cartier-Bresson, mentre catturava il minuto sbirciando dal mirino di una vecchia Leica. E forse è proprio questa eternità che sto cercando, ancora sveglia a quest’ora.
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venerdì, agosto 17, 2007
SOTTO UN MANTO DI STELLE
La mia estate romana continua.
Ho seppellito la tristezza in terra straniera e fra scatti fotografici e passi incerti sul ciottolato antico, mi godo il congedo dalle tensioni di una quotidianità inceppante e una nuova libertà che profuma di caffè d’orzo in tazza grande.
E' sera a Trastevere. I pochi romani rimasti in città si riversano sulle strade coi sorrisi abbronzati e voci impastate di gelato e birra fredda. I turisti vagano rapiti da tanta bellezza, sorseggiano gocce di meraviglia ed esprimono desideri che sanno di dolce vita e stornelli urlati. Una donna coi capelli bianchi spinge aria nel mantice di una fisarmonica e due ragazze in bicicletta si raccontano pezzi di vita rotolando copertoni sgonfiati con la felicità di ragazzine in sella a un primo appuntamento.
Sono in pizzeria a festeggiare il compleanno di una principessa esotica.
Quel che resta della città transita alle mie spalle, impastando lo scalpiccio di sandali e scarpe di tela al garrito di gabbiani in volo. Un'emozione si fa largo fra le voci del menù e assume il volto gioviale di quell'uomo brizzolato e paffutello che mi siede di fronte. Lui, attore napoletano dalla comicità innata e spalla di uno dei pochi uomini dello spettacolo che abbia mai amato veramente, è seduto a un tavolino in compagnia di giovani esuberanti.
E’ Lello Arena.
Gli occhi tristi di chi è troppo impegnato a guarire l’umore degli altri e quel luccichio che fa brillare il viso dei personaggi noti e attira sguardi di curiosi e stupore.
Lo osservo. Lui non mi vede.
Non ho mai provato grande entusiasmo per i famosi. A Bologna ne ho visti tanti. Da Cesare Cremonini a Biagio Antonacci.
Ho incontrato Gianni Morandi sotto casa, Franca Valeri sull’autobus. Ho camminato al fianco di Samuele Bersani in direzione aule universitarie. Ho salutato Ayrton Senna nel sottopassaggio al Gran Premio di Imola. Ho rifiutato un invito a cena da Nelson Piquet e sono stata in osteria con Alberto Tomba. Ho parlato con Neffa e Luca Carboni, Katia Ricciarelli e Claudio Santamaria.
Ho incontrato Roberto Benigni al Thai di Milano Marittima, Nicoletta Braschi in un noto ristorante bolognese, Eros Ramazzotti agli inizi della sua carriera e Vasco Rossi in un bar della via Emilia. Ho ricambiato l’occhiolino di Alessandro Haber davanti al teatro, il saluto di Patrizio Roversi in bicicletta. Ho rischiato di investire Jean Alesi con una Samba rossa in una mattina di aprile e ballato con Mick Hucknall dei Simply Red, con pantaloni a zampa d’elefante e una lunga collana di pietre rosse.
Lello Arena è ancora al suo tavolo. Ora lo guardo negli occhi e gli sorrido. Vederlo mi emoziona. Sarà perché vicino a lui aleggia ancora la smorfia di Massimo Troisi. Oppure perché parla di teatro, di musica, di attori. Oppure perché non sono mai stata a Napoli, ma questa sera è come se Napoli e i suoi mille culure fossero venuti da me.
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venerdì, luglio 27, 2007
JUST MARRIED
“Sposarsi non è difficile!” dice Andie MacDowell in Quattro matrimoni e un funerale. “Basta rispondere sì a tutte le domande che ti fanno.”
Sono al matrimonio dell’amica storica.
Nel giardino di una villa settecentesca dai decori e affreschi di pregio respiro aria faentina sotto un cappello a tesa larga e grossi pois bianchi e neri. Un prato all’inglese solletica il cuoio di scarpe nuove ed eleganti e un’orchestrina jazz accompagna un aperitivo in perfetto stile cerimonia.
Cosa mangio?
Sul tavolone imbandito vassoi di ostriche sopra un letto di cubetti di acqua gelata donano alla campagna romagnola quel profumo di mare che sta bene su tutto, come il color cuoio di certe borsette da signora.
Il chiacchiericcio degli ospiti fa da sfondo alle note di un sax che intona vecchie melodie.
Fra gli invitati, gli amici di sempre, fior di professionisti, donne pavone che mostrano ventagli di piume colorate e uomini ingessati nei colli inamidati delle loro camicie migliori.
Settecentocinquanta candele illuminano i vialetti in terra battuta dove D’Annunzio e Carducci amavano passeggiare, mentre bambine infiocchettate si rincorrono fra i tronchi secolari di generose fronde silenziose.
Sorseggio champagne e la guardo nell’abito prezioso. Un color avorio le avvolge le forme, i capelli biondi raccolti e intrecciati. Sorride.
Da studentesse passavamo intere estati a cuocerci al sole. Non ci bastava mai.
La rivedo nel suo costume color jeans. E’ sempre stata bella, aggraziata. Lunghi capelli biondi e un topless ostentato sulla tela che sapeva di sale del mitico catamarano di Giorgio.
Il marito è avvocato, come lei del resto, e ama farmi ridere.
Aspetto le sue battute come sketch di uno spettacolo appena iniziato. Scherza sul suo portafoglio alleggerito, sulle zie che aspettano ancora l’ex fidanzato medico e tutto segue il ritmo stabilito. Lancio del bouquet dalla balconata. Cambio d’abito per il dopocena e musica dal ritmo invitante. E poi, camerieri impettiti, fotografi irrequieti, il truccatore “truccatizzimo”, il testimone addormentato e una cascata di confetti impietriti nelle candele profumate.
Ballo, bevo, mangio e mi agito fino a notte. Con me gli amici che non vedevo da anni. Un medico bolognese e un farmacista di Firenze si agitano sulla pista illuminata. A guardarli sembrano due bambini ubriachi dalla gioia di una vacanza inaspettata.
Gli sposi ringraziano, si baciano e io sono felice e triste, e penso che quando l’amica convola a nozze, invecchi in dieci minuti.
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martedì, luglio 24, 2007
BUON COMPLEANNO
Ci sono giorni in cui la tastiera scrive da sé. Si serve delle mie dita. Io le guardo in silenzio mentre picchiano lettere in sequenza e le lascio lavorare…
Perché mi sono svegliata così presto? La casa è ancora sottosopra. Non trovo più una scarpa. Il portone del palazzo sbatte in faccia a una mattina umida e immorale. Sul pavimento le briciole di un film, di una pizza di plastica trangugiata fra un sorso di birra e una sigaretta senza filtro. Il tanfo di fumo sta divorando l’intonaco delle pareti, fra qualche minuto avrà raggiunto il rosso della pietra cotta. Sento i crampi sbrindellare il mio stomaco svuotato. Cos’è successo nella notte? Due piedi scalzi sbucano da una coperta scozzese buttata sul divano. Un braccio tatuato oscilla cautamente al ritmo di un respiro troppo assonnato. Il mio corpo non è più lo stesso. La pelle non ha più il mio odore. In testa mi suona una banda di scalmanati che sbatte improbabili bacchette sulle mie tempie irritate.
Spero solo di non aver esagerato. L’ultima volta hanno portato via Charlie arrestandolo nella notte.
Ma Charlie è così. Fa sempre ciò che vuole. Conquista la sua fetta di mondo con l’ingenuità di uno sguardo bambino e quei riccioli scuri che riposano sulle spalle. Non potrei mai arrabbiarmi con lui.
Passo una mano sul viso e incontro il mio volto. La fronte sudata, gli occhi stanchi. Ho qualcosa sul naso. Mi specchio. Un altro piercing.
“Charlie vaffanculo! Questa volta potevi almeno dirmelo!”
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giovedì, luglio 12, 2007
QUI DOVE IL MARE LUCCICA
E’ piena stagione nel paese del vento. Sulle terrazze degli alberghi del lungomare file di teli colorati mostrano le bandiere di paesi lontani e ai bordi delle strade si accalcano le auto parcheggiate. Cammino sulla battigia mentre l’alba allunga le sue mani rosate su una spiaggia ordinata e ancora silenziosa. L’aria è frizzante e la brezza miscela il tempo restituendo un frullato di immagini ai frutti misti e papaia.
Avanzo pigramente e come il protagonista del mio romanzo penso ai miei primi desideri. Dall’acqua affiorano solo i miei piedi abbronzati che si fanno strada fra spruzzi e conchiglie rosicchiate e in questa porzione di tempo si sente solo il fruscio di assonnate onde mattutine.
In lontananza vedo il porto.
Continuo a camminare e già i primi bagnanti cominciano a depredare porzioni di spiaggia come pirati part-time mentre lontano troneggia il modesto grattacielo di Milano Marittima, testimone di sfacciate feste vip e banditore di un’asta riservata agli amanti delle passerelle.
Qualcuno corre sciogliendo muscoli e pesantezze invernali. Venditori abusivi stendono le loro merci contraffatte con occhi accorti. Vecchi e signore cotonate passeggiano inspirando aria a pagamento.
Continuo a camminare e attraverso il tratto di spiaggia libera. Una colonia di bambini sbraita la libertà della prima vacanza senza genitori. Le loro grida danno via al tam tam vacanziero che sale sul palco senza pretesa di applausi.
A ogni passo la spiaggia si colora di tinte in due pezzi e pantaloncini.
L’odore di abbronzanti copre la salinità del venticello di ponente e la quiete diventa caos. In pochi minuti il brusio di chiacchiere sotto l’ombrellone sovrasta la timida voce del mare calmo. Suonerie di cellulari, partite a racchettoni e pettegolezzi all’olio di cocco sono un coro stonato senza più direttore.
Mi faccio strada fra la gente. Il sole assesta le sue spinte luminose e una morsa preme sui miei polpacci poco allenati.
La meta è vicina.
Qualche passo ancora e raggiungo gli scogli che ne disegnano l’area.
Ecco il porto! Pensione di lusso per ormeggi da turismo e aia allagata di loschi traffici e scambi illeciti.
Sul pontile riconosco l’odore delle vele e dei carburanti.
Non so ancora perché stamattina ho camminato tanto per essere qua.
Da bambina ci venivo con mio nonno. Seduti sul molo aspettavamo l’arrivo dei pescherecci per vedere la fatica di uomini abbronzati che tornavano da una notte in mare. Li guardavo sistemare cassette di pesce saltellante e ascoltavo il loro dialetto forbito raccontare imprese impossibili. Ripiegavano le reti, si passavano il braccio sulle fronte e nelle loro canottiere macchiate mi sorridevano sempre.
A mio nonno non l’ho mai confessato, ma diventare pescatore era il mio secondo desiderio.
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martedì, luglio 03, 2007
Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
Un blog è come una piazza. Chiunque può transitarvi, a ogni ora. Ci trovi storie. Pezzi di vita come bocconi da fast food. Leggi e ingoi. Ci bevi dietro un sorso di birra scadente e te ne vai altrove. Quando hai fame ci torni. Mangi altre parole. Se sei sazio lasci anche commenti. Un pezzo di torta per chi verrà dopo di te. Una coca cola in lattina. Una sigaretta accesa.
Guardo le pagine del mio blog.
In quanti sono passati di qua?
Poeti e scrittori, discrete penne e dissacratori, opinionisti e curiosi, giornalisti e ruffiani. Viandanti del web che hanno alleggerito giornate di lavoro navigando al tempo di un click.
In quanti torneranno?
Chi verrà dopo di loro?
Un blog è come una piazza. Qualche volta è gremita di facce allegre, turisti che la fotografano. In altri momenti è buia, coi netturbini che spazzano via l’esuberanza del pubblico dell’ultimo concerto di beneficenza. Vi ritrovi vecchi amici in sella a una bicicletta, sguardi seducenti di passanti. E se hai tempo puoi fermarti a scambiare due chiacchiere col pazzo che urla al cestino dei rifiuti o con la signora che porta a spasso il cane pettinato alla moda.
Su un blog ci si arriva per caso. Segui l’istinto. Apri pagine come matrioske. Colori, sembianze, profili accennati di individui che si celano dietro immaginarie identità.
Anche oggi torna sera a Bologna. La luce sfuma sul rosso dei tetti, “la gente torna a casa davanti alle televisioni”, e mentre mi domando come siano finite le persone sul mio blog qualcuno mi cerca in chat.
“Ciao” attacca.
Rispondo al saluto.
E’ un ragazzo. Dice che scrive racconti. Dice che è capitato sul mio blog nel modo più strano che io possa immaginare.
Lo sfido a raccontare.
Non vuole farlo, dice di vergognarsi.
Spero che non cominci a dire porcate perché chiudo la chat e non la riapro più.
Mi chiede di non ridere. Prometto di non farlo. Inizia a raccontare.
Pare che qualcuno gli abbia letto le carte. Ma io che c’entro? Penso. Quel “qualcuno” gli ha suggerito un nome per cercare qualcosa che avesse a che fare col suo cammino. Quel nome era Lucia e lui l’ha cercato sul web.
Non riesco a mantenere la promessa e rido.
Lui non si arrabbia, ride con me.
E’ una serata strana. Il vento sbatte porte e finestre e al piano di sopra qualcuno discute vecchie questioni ormai note all’intero palazzo.
Un blog è come una piazza, penso. Un non luogo che mescola magia e immaginazione.
Non so ancora come tutti voi siate capitati qui. Certo che ne avete avuta di pazienza a seguire le mie storie. Avrei voluto servirvi le portate migliori, versare nei vostri bicchieri vini d’annata e brindare alle stagioni che incalzano. Ma è solo un fast food. Parole a buon mercato da consumare fra un volo di piccioni e un chewing-gum sputato che se non fai attenzione ti si appiccica sotto i piedi.
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martedì, giugno 26, 2007
ROMAntica città
Non tornavo a Roma dai tempi in cui vispa e malandrina portavo a spasso l’età della patente con una coda di cavallo e un orecchino nero.
Nei ricordi, una notte in Piazza Navona, la fuga attraverso i cornicioni di un albergo per studenti e una bellezza equamente diffusa che alitava sulla nostra sfacciata immaginazione.
E’ un pomeriggio assolato nella capitale. La bambina di Trastevere è uscita dal computer e mi è venuta incontro con le chiavi della città. “Dove vuoi andare?” mi domanda.
“Ovunque ci sia un pezzetto di questa città” rispondo.
Camminiamo sul terreno battuto di una fitta pineta che richiama il paese del vento. E’ l’ingresso di Villa Pamphili. Qualcuno dice fosse cara al D’Annunzio, qualcun altro corre sui suoi
Se avessi un giardino così lo riempirei di rose gialle. Pianterei tulipani olandesi e viole mammole.
Se avessi un giardino così chiamerei gli amici. Traccerei il cammino con fiaccole tremolanti e riempirei i bicchieri di vino rosso ferroso.
Un albero a lunghe braccia e fronde generose ripara le nostre parole dal caldo che scioglie un gelato di soia.
Roma è un set. Ovunque guardi, ovunque sei, l’obbiettivo di qualche regista è già arrivato prima di te. C’è
Se avessi mille corpi li lascerei vagabondare per le strade del centro. Uno sul Lungotevere, l’altro al Giardino degli Aranci. Uno in Piazza di Spagna, l’altro a Circo Massimo. Uno al fresco dei musei, l’altro a Villa Borghese.
Se avessi mille corpi non starei sotto un albero a respirare quest’aria eterna. Coglierei le immagini come fiori di campo e ne porterei un fascio a chi Roma non l’ha ancora vista.
“Dove vuoi andare?” insiste la bambina di Trastevere.
“Dove possa vedere tutto” rispondo io.
Come guida attenta e premurosa mi prende per mano. Percorriamo una strada in salita. Costruzioni eleganti, glicini e oleandri in fiore. Alla destra il Cupolone, a sinistra le case dei ricchi. L’auto si ferma. Davanti a noi una terrazza saluta dall’alto l’intera città. E’ il tramonto.
A ogni passo sento l’emozione battere come un disperato alla porta. I mille corpi tornano a uno a uno con una pellicola di foto scattate e un biglietto del metrò. Sono Fellini, sono Pasolini. Sono De Sica, sono Greenaway. Mi affaccio, e dall’occhio del mio obbiettivo vedo il paradiso.
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lunedì, giugno 18, 2007
IO BALLO SOLA
E’ un nuovo giorno a Bologna. Il mattino mi piomba addosso come calcinacci di un soffitto che crolla per un terremoto.
Quando qualcuno sfregia la mia fantasia con coltelli affilati, lascio gli incubi ingabbiati fra le trame di quel tessuto che mi ha coperta nella notte, apro l’anta di un vecchio mobile di legno scuro, sfoglio vecchi dischi in vinile e porto il mio corpo assonnato a scoprire le meraviglie di una vita che continua.
Era il 1981 quando morì. Romantico e triste, miscelava humour e sarcasmo con in testa un cilindro nero e la rabbia di un sud che pativa sotto il sole malato. Si chiamava Rino Gaetano e oggi canterà per me.
“Io scriverò” attacca con voce suadente “se vuoi perché cerco un mondo diverso, con stelle al neon e un poco di universo, e mi sento un eroe a tempo perso”.
Lo ascolto.
Abbraccio la copertina del suo disco mentre lui continua a cantare. “…io scriverò, sul mondo e sulle sue brutture, sulla mia immagine pubblica e sulle camere oscure, sul mio passato e sulle mie paure…”.
Lo guardo. Lui accarezza il cane. La puntina incide il solco del disco. Attacca “Hai Maria”.
“E quando tramonta il sol, una canzone d'amor, da Baja a Salvador, oh Maria per te canterò”.
Alle sue parole si alternano strumenti in concerto che sanno di fichi d’india e strade che si srotolano nella campagna meridionale. Il tamburellare di polpastrelli sulla pelle tesa dei bongos è un richiamo ancestrale al quale non posso resistere. Devo ballare.
A piedi nudi sul legno mi muovo seguendo il ritmo di percussioni latine. I miei fianchi si fanno mandolino e ancheggio battendo il tempo delle corde d’acciaio che si agitano sulla cassa armonica intarsiata. Il sangue pompa con nuova cadenza e la testa si lascia guidare dalle note che incalzano. Alzo le braccia. Alzo il volume.
“E questo sapore strano che è fatto di libertà mi dice che oggi qualcosa è cambiato in me
ahi Maria non sei più con me.”
Lui continua a cantare.
Le mie mani picchiano i piatti di un’immaginaria batteria. Le gambe sono manici di chitarre che cambiano coi passi gli accordi. Il respiro ansante si fa canzone.
L’aria che esce dalla campana delle trombe in sezione mi spettina i capelli.
Giro su me stessa, mi dimeno. Oscillo. Mi scuoto e divento calore.
Lui continua a cantare.
“E quando tramonta il sol, una canzone d'amor, da Baja a Salvador, oh Maria canterò oh oh…”
Io danzo, e mentre danzo sono metafora, come diceva Degas, oppure sono solo indemoniata, come pensava mia nonna. Ma il cuore vibra, assesta i suoi colpi, spinge l’emozione a risalire, e ogni volta che lo sento così, sono quasi felice.
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lunedì, giugno 11, 2007
FRANCESCO!
A Bologna non c’è il mare, lo sanno tutti. Tuttavia si sente lo scorrere dell’acqua dei fiumi padani che l’attraversano. Canali celati da un’architettura ruffiana, che trasportano bottiglie senza messaggi nell’umida oscurità di antichi sotterranei.
E’ una banale domenica cittadina ai giardini. Un prato di corpi al sole consola la voglia di spiaggia. Costumi, creme abbronzanti e strilli di bambini completano l’artificio e noi, vittime coscienti di un inganno, ci sentiamo in riviera.
Sul terreno erboso, che restituisce pigro l’umidità dei giorni passati, rotola un pallone americano. Una cane rincorre un frisbee fluorescente e una piccola donna porta a spasso una nuvola zuccherata che sa di sagra di paese e feste in piazza.
Sdraiata sull’erba ascolto distratta la goliardia di un gruppo di amici. “Quanto si mantiene l’insalata in frigo” e “quanti anni vivono i cammelli” sono solo l’inizio di uno scambio di battute che mi fa sorridere clandestina mentre nei miei occhi chiusi si stempera il verde di uno sguardo che non rivedrò più.
La bonaccia regna sul pomeriggio felsineo. I vecchi sbuffano l’aria fresca delle fronde degli alberi e strani tatuaggi blueggiano sulla pelle di pattinatori esperti.
“Francesco!” grida una mamma con una bibita fresca in mano.
Due ragazze si guardano e scoppiano a ridere.
“Francesco!” torna a chiamare.
“Queste donne non sanno nemmeno badare un bambino!” commenta un tizio col giornale sottobraccio.
“Francesco! Francesco!”, il grido insiste sicuro.
“Francesco! Francesco! Francesco!”, si fa disperazione.
I goliardi abbandonano le ciance e raggiungono la donna agitata. Il suo bambino ha cinque anni, pantaloncini chiari e una magliettina rossa. Dice che è sparito.
“Francesco!” torna a urlare.
“Francesco!” la voce si strozza.
Un comitato improvviso si mobilita. Zittiti, due uomini restano a guardare mentre la paura deforma il volto della donna che soffoca le lacrime in un altro grido.
Qualcuno chiama la polizia.
Nell’immaginario scorrono drammatici i fatti di cronaca. Pedofilia, rapimenti, mercato nero delle cornee. La donna continua a piangere e il tempo scandisce minuti interminabili.
“Francesco! Francesco!” chiamano in coro. Tutto il prato è zittito, gli sguardi si incrociano increduli quando fra i bambini che hanno smesso di sorridere e gli alberi che creano pericolose zone d’ombra, una maglietta rossa avanza piangente e avvilita. La madre lo vede senza guardarlo. Rinasce. “Cercavo solo una fontana!” biascica fra le lacrime. I due si abbracciano. L’allarme rientra. I ragazzi tornano al sole e mentre si sentono ancora voci gridare “Francesco!” io penso che quando ami qualcuno, non dovresti mai perderlo di vista.
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lunedì, giugno 04, 2007
E TI RICORDO ANCORA
E’ mattina. Un lampo deforma i contorni di ciò che sembrava familiare, un tuono spacca l’aria e la voce della natura urla la sua autorità sovrana sulle cose della vita.
Rimango nel letto ancora un po’ ad ascoltare i silenzi che fanno riaffiorare vecchie paure.
Il temporale in città è come uno spettacolo che va in scena nel teatro sbagliato. La scenografia è ridotta. Agli alberi che vacillano si sostituiscono ferrose antenne issate sui tetti delle case. Le comparse sono piccioni che si nascondono sotto i portici. L’acqua non disseta alcun terreno ma scorre lungo le pareti di antichi edifici in arenaria e ne modella i fianchi.
Ovunque è scroscio e una nuova freschezza si rovescia a secchiate sul pavé polveroso delle strade.
Il profumo è quello di bacche selvatiche e funghi velenosi che crescono sulle rare cortecce disseminate nei giardini nascosti.
Bologna rimane in apnea per non annegare.
Sono ancora nel letto avvolta da lenzuola gialle e capelli. Qualcuno, in qualche altra città, legge fumetti che non mi sono mai piaciuti e la mia vicina ritira velocemente i panni stesi imprecando in dialetto.
Un tempo stavo sulla spiaggia in giornate come questa. Là accadeva sempre qualcosa quando c’era un temporale. La luce rarefatta esaltava l’abbronzatura e mi godevo l’assenza dei turisti che lasciava la sabbia solo per me.
Quando si alzava il vento c’era anche lui. Era biondo, la madre irlandese, il padre pescatore. Portava la sua tavola da surf sulla riva e non parlava mai. Lo guardavo issare la vela, montare il boma e sparire lontano. Portava una muta blu cobalto che lasciava scoperte due braccia forti ed esperte e tagliava le onde come delfino impaziente. Io aspettavo sempre il suo ritorno camminando sul bagnasciuga mentre sbirciavo fra i capelli per non farmi notare. Affrontava il mare agitato. Lo domava come si fa coi giovani puledri che scalciano via le prime briglie, poi guadagnava la riva stanco e felice. Un giorno mi salutò con la mano e mi mandò un bacio. Alle sue spalle spariva un timido arcobaleno.
La pioggia si è calmata. Il rombo delle auto non copre lo strillare delle rondini. Presto tornerò nel paese del vento e spero faccia temporale.
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venerdì, maggio 25, 2007
LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA
Il peso delle ultime giornate lo porto addosso. Mi incurva le spalle. E’ solo un attimo, penso. Quando il lavoro avvelena la vita e fuori rosseggiano più di trenta gradi, è di una doccia che ho bisogno. Uno scroscio d’acqua che annaffi il buonumore.
Cammino scalza sul marmo fresco di questa casa antica. Le spesse mura mi riparano dalla calura cittadina e i pesanti tendaggi da occhi indiscreti mentre lascio tracce di abiti sul pavimento e una musica ipnotica rimbalza note dal sapore epico.
Shampoo alle ortiche, balsamo delle fate, pettine a denti larghi e schiuma naturale. Entro nella vasca mosaico verde, tiro la tenda di tela grezza e chiudo gli occhi in attesa del getto. Le prime gocce, come spilli d’acciaio, si conficcano fredde sul volto e mi svegliano dal torpore di un pomeriggio assolato. L’abbraccio dell’acqua calda si lascia desiderare e io l’aspetto soffrendo fiduciosa mentre spalmo il profumo di una crema da bagno. L’acqua è sempre più fredda.
Allontano la schiena. Sulla rubinetteria cromata uno strato di condensa annuncia il gelo. “Porca put….!” impreco, ed esco dalla vasca gocciolante. La pelle increspata come oca starnazzante e l’aria scocciata di bambina con un giocattolo rotto.
Oltre la finestrella della caldaia non vedo fiamme accese e una pozza vischiosa prende forma ai miei piedi. Provo ad appiccare il fuoco ma nulla da fare. Come un gelato che scioglie sotto il sole battente mi aggiro per la casa alla ricerca di una scatola di fiammiferi. Li trovo e torno tremante. Ci provo e ci riprovo. La luce non si accende.
“Nella rinuncia c’è anche saggezza” diceva il mio prof di matematica. E io che non son saggia provo fino allo sfinimento ma nessun risultato.
Lo sconforto trova strada facile quando manca l’acqua calda, ma peggio sarebbe se mancasse anche la fredda, penso. Vado in cucina lasciando una scia di impronte bagnate. Là ci sono pentole e fiamme pronte a incendiare.
Mi rivedo bambina nella vecchia casa dei nonni, a bagno nella mastella di legno che sapeva di mosto, con quella mano di donna che mi insaponava cantando “parlami d’amore Mariù”.
Sorrido e oggi al bagno non rinuncio. Fosse solo per non dare adito alle parole di quel vecchio insegnante che sapeva giocare solo coi numeri.
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lunedì, maggio 14, 2007
TRISTEZZA, PER FAVORE VA’ VIA
Ho combattuto coi draghi tutta la notte per guadagnare il risveglio. “E’ l’alba di un nuovo giorno”, diceva sempre mia madre quando, bambina, mi nascondevo sotto le coperte per non affrontare l’aria frizzante della mattina invernale.
In strada solo poche auto e qualche bicicletta che scivola sul ciottolato antico.
“Inseguendo una libellula in un prato, un giorno che avevo rotto col passato….”, canta Battisti alla radio, mentre il mio caffè brontola e reclama attenzioni.
Da ieri mi ronza attorno la tristezza come zanzara che vuole il mio sangue. L’ho portata al parco a vedere i bambini sporchi di gelato. Si è distratta per la barzelletta spinta di due vecchi seduti all’ombra, poi è tornata al mio fianco, distesa al sole, come bagnante senza stagione.
Abbiamo camminato sull’erba a lenti passi, senza parlare. E’ salita in sella alla mia bicicletta e ho portato il suo peso morto a veder vetrine spente per le strade del centro.
Ha bevuto il mio tè, mangiato il mio dolce alle mandorle.
Al tramonto ci siamo fermate in piazza dove un uomo dagli occhi azzurri suonava la chitarra. La guardavo rispecchiarsi vanesia in quelle note che parlavano di lei. Le sorridevo falsa per mascherare le mie vere intenzioni. E in un momento propizio sono fuggita ansimando verso casa. Ho tagliato per vicoli sconosciuti. Cancellato le mie tracce gettando sabbia sulle impronte. Ma davanti al portone l’ho ritrovata, seduta sul gradino, che faceva boccacce ai passanti.
A sera stava ancora con me. Il volto livido di stanchezza e un cinico ghigno che pareva dirmi: “Non ribellarti, tanto resto qui!”
C’è chi dice che la tristezza sia l’incontro fra il desiderio e i suoi limiti. Il dizionario in rete la dà come sentimento proprio degli artisti sempre in corsa per superare se stessi. Eugenio Montale diceva che l’uomo coltiva l’infelicità per avere il gusto di combatterla a piccole dosi.
Per me è solo un brutto incontro, parole che non riesco a dimenticare. E’ l’odore di ruggine di un binario che traccia strade sbagliate. Il sapore di un pasto lasciato a metà. Il castello lontano dove vorrei vivere col principe.
Torno a dormire. Chissà, forse al secondo risveglio sarà davvero l'alba di un nuovo giorno.
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giovedì, maggio 03, 2007
PITTORE TI VOGLIO PARLARE
La pittura è il linguaggio di chi preferisce segni e colori alla sterilità di certi discorsi. Perfetta per i sordomuti e sconosciuta ai pettegoli, la pittura è musica per gli occhi. A volte un canto, a tratti è rock. Se improvvisa è jazz. Nelle sue sfumature più lievi è una sonata classica.
Non sono una pittrice, ma quando spendo fino all’ultima parola e in fondo alle tasche non rimangono che briciole di sillabe, è del colore che ho bisogno, della sua naturale melodia e delle forme che escano dall’ombra.
“Sua figlia non imparerà mai a disegnare!” tuonava la mia insegnante delle prime classi. “Avete mai visto un pittore mancino?” Infieriva. Io che non avevo mai visto nemmeno un pittore, guardavo la mia mano sinistra e seguivo le linee di una vita che tutto poteva meno quella cosa lì.
E’ una mattina umida a Bologna. La città si riveste dopo l’illusione di un’estate e al piano di sopra qualcuno ha già messo a scaldare il caffè.
Sono in una stanza vuota, la mia futura camera da letto. Un pavimento in cotto antico guarda un soffitto spoglio a quattro lunghi passi direzione cielo. A quell’altezza starebbe bene una decorazione liberty, semplice, floreale, penso guardandolo. Ne ho già dipinti di soffitti e un fregio di quel tipo non è poi così difficile da realizzare. Ma la mia fantasia non conosce censura e nel chiaro scuro di un azzurro macchiato di nuvole, vedo due putti alati che portano a spasso ghirlande di foglie e fiori intrecciati.
“No, non puoi farlo!” ammonisce una vocina da dentro.
Perché no? Chiedo ingenuamente.
“Perché non hai mai dipinto un corpo.” Ribatte la vocina.
La pittura nasce dall’osservazione. Sarò meticolosa, assicuro io.
“Non basta osservare, serve più esperienza.” Insiste boriosa.
Guardo il soffitto. L’immagine dei putti torna a dominare sulle foglioline d’alloro e le forme geometriche che ridefiniscono lo spazio. Li vedo. Gli occhi socchiusi, i corpi floridi e sospesi.
Non posso lasciarli nel nulla.
Monto un vecchio ponteggio. Il metallo lucido alterna gocce seccate di elementi cromatici.
Sulla tavola di legno ci sono polveri dei tre colori primari e un sacchetto di carboncini. Un pezzetto di carta vetrata di grana fine, barattoli di pigmenti naturali, pennelli e una ciotola d’acqua pulita.
Alzo il volume della radio e mi arrampico fino all’ultimo ripiano.
L’odore dell’impasto colorato è un pomeriggio di giochi e pasticci in un dopo scuola di paese.
Guardo il mio braccio. La carne non è rosa, mi ripeto. C’è il giallo, il blu delle vene, l’ombra delle pieghe della pelle. Se non avessi imparato a osservare non mi sarei mai accorta di quanto bianco c’è sulle foglie bagnate. Non avrei mai visto l’ombra nelle forme. Non avrei mai notato che il mare di notte può essere giallo.
Con tutti i barattoli aperti sono come un cuoco che amalgama ingredienti e realizza creme invitanti e velenose che non possono essere assaggiate. La prima tinta è pronta. Troppo scura. Troppo rosa. Troppo fredda. Aggiungo una punta di giallo. Il colore si scalda ma è ancora troppo carico. Stempero col bianco. Aggiungo altra ombra. Ora è grigio. Una punta di Magenta e la tinta torna a rivivere. Ancora troppo scura. Altro bianco. Stempero con l’acqua. Troppo giallo. Raffreddo col blu ciano. Troppo spento. Ravvivo ancora col Magenta. Scaldo col giallo e spengo con l’ombra. Ultima puntina di bianco: eccolo!
Ora mi serve solo concentrazione e una buona dose di fortuna che mi guidi la mano. E se tutto andrà bene, presto mi sveglierò guardando due putti che danzano, del colore del mio braccio abbronzato.
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giovedì, aprile 26, 2007
Quella casa non è un albergo
E’ un caldo pomeriggio nel paese del vento. Bagnanti di bassa stagione abbracciano il sole sulla spiaggia. L’azzurro è generoso come il seno di una balia, e sulla sabbia un viavai di orme cancella le onde disegnate dall’ultima tramontana.
Col sottofondo intonato dal mare, cammino in pineta, sopra un prato di aghi e legnetti spezzati, e sotto una pelle accaldata che profuma di abbronzante e di costume nuovo. Un tempo c’erano le more che coloravano le siepi, rifugi selvatici e custodi del sogno di cavalieri pronti a salvare sfortunate principesse dalle insidie di streghe cattive.
Mi faccio strada fra tronchi mozzati e passeggini che trasportano bimbi in dormiveglia. In lontananza un pianoforte spennella note barocche sulle cortecce ruvide dei pini. E’ Bach. Mi avvicino. Un passo ancora e sono davanti a quella casa. Le finestre sono spalancate, una veranda retrò lascia intravedere un interno di oggetti e arredi antichi. Alle pareti quadri di famiglia e foto storiche. Vecchi mobili di legno scuro, pizzi nelle credenze, stufe di ceramica e un rosso di gerani che contrasta il bianco dei muri. E’
Casa al mare di una storica famiglia ferrarese, che negli anni cinquanta divenne una pensione per viandanti,
Alla Villa vive Giorgio, sessantenne o forse più, figlio di una bellissima donna sulla novantina, famosa per la traversata dell’Adriatico sugli sci nautici, e di un affascinante attore di fotoromanzi che distillava essenze di fiori selvatici e guidava un’auto sportiva di antica targa.
Giorgio scrive, dipinge la sua compagna e và per cielo e per mare. Ha bei figli di una moglie che non c’è più ed è depositario di tutti i ricordi del luogo. Da ragazzina oltrepassavo quel cancello per sbirciare una vita piena di avventura. Alla Villa accadeva sempre qualcosa. Alla Villa c’era sempre qualcuno. Di sera, seduti nel salotto di pietra, si potevano ascoltare storie fantastiche di quegli anni che non ci sono appartenuti. Lì ho conosciuto draghi e imperatrici, sovrani e cortigiane.
Qualche volta, feste di buona musica e pesanti mescolanze alcoliche ci facevano sentire come vecchi lupi di mare di ritorno da un lungo viaggio. A fine serata guardavo con invidia gli ospiti che salivano le scale per raggiungere le camere da letto. Dormire alla Villa mi sarebbe piaciuto davvero. Sognavo di passarci la notte con un principe, ma mi dissero presto che l’ultimo se n’era andato con Biancaneve.
Entro nel porticato. Una fragranza di glicine e di panni stesi sostituisce l’odore di resina e di sottobosco. Seguo la scia di fumo di una sigaretta accesa. C’è qualcuno. Se sono fortunata avrà qualcosa da raccontare.
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